Labbra cremisi su sfondo nero, voluttuose, che iniziano a intonare una canzone. È l’invito a prendere posto all’ultimo spettacolo notturno di fantascienza, rigorosamente dall’ultima fila. Così inizia The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman, e da quel momento nulla sarà più come prima.
Il film, che torna nelle sale italiane in un nuovo restauro 4K distribuito dalla Cineteca di Bologna, non è semplicemente un musical: è un fenomeno culturale che da oltre quarant’anni continua a evolversi, trasformandosi ogni volta che incontra il suo pubblico.
Uscito nel 1975 e preceduto di due anni dal musical teatrale di Richard O’Brien, The Rocky Horror Picture Show si presenta come una celebrazione smodata del cinema di genere dimenticato. Michael Rennie di Ultimatum alla Terra, Flash Gordon, Claude Rains ne L’uomo invisibile, Anne Francis del Pianeta proibito: sono tutti lì, evocati come spiriti di una tradizione cinematografica relegata negli scaffali più polverosi della memoria collettiva. Ma non c’è nostalgia in questa operazione. C’è invece uno spirito eversivo che riprende quella capacità dei film di fantascienza e horror di oltrepassare l’ordine costituito, entrando dalla porta di servizio per scardinarlo dall’interno.
Al centro di tutto c’è lui: Tim Curry al suo esordio sul grande schermo, in tacchi a spillo, calze a rete, corsetto di raso nero e un filo di perle. Il dottor Frank-N-Furter fa il suo ingresso cantando Sweet Transvestite davanti ai casti fidanzatini Brad e Janet, interpretata da una giovanissima Susan Sarandon. Quel momento è diventato iconico non per caso. Curry incarna una sessualità sfrontata, libera e liberatoria che non distingue tra uomini e donne, che non si scusa, che non si nasconde. È satura di un piacere che la società considera deviante, e per questo diventa rivoluzionaria.
La sua creatura – Rocky, una parodia vivente di Frankenstein, della Mummia, di Ercole, di Steve Reeves – nasce da un liquido arcobaleno. È un uomo muscoloso e attraente, costruito con il solo scopo di soddisfare il desiderio sessuale del protagonista. Non c’è pudore, non ci sono scuse narrative: il film mette tutto in primo piano, frontalmente, costringendo lo spettatore a guardare o a distogliere lo sguardo. Imparare i passi del Time Warp è immediato – basta seguire le indicazioni del Criminologo – ma è la spinta pelvica che fa impazzire sul serio. Un movimento spudorato che, ripetuto ossessivamente, porta conseguenze estreme.
La narrazione procede per situazioni esplicite e grottesche, a volte prive di senso logico ma perfettamente funzionali a uno spettacolo glam rock che mette il suo estremismo sotto i riflettori. La scena del massacro di Eddie, interpretato da Meatloaf, e la cena che ne segue segnano il punto di non ritorno: il comportamento libidinoso e violento di Frank diventa insostenibile anche per i suoi servitori Magenta e Riff Raff, che lo elimineranno nell’atto finale.
Don’t Dream It, Be It: è il grido sussurrato di Frank prima di congedarsi dal suo pubblico immaginario, mentre Fay Wray scortata dal suo King Kong esce da quel vortice di celluloide su cui svetta il logo della RKO. Il sipario si chiude. Brad e Janet sono in salvo, confusi, non certi di cosa comporterà questa esperienza. Persi nel tempo e nello spazio, e persi nel significato stesso di ciò che hanno vissuto.
Ma cosa abbiamo visto davvero? È la domanda sbagliata da porsi. The Rocky Horror Picture Show è prima di tutto una liturgia, un’esperienza che si consuma da decenni nelle sale di tutto il mondo, specialmente negli spettacoli di mezzanotte. Le persone arrivano vestite come i loro beniamini, prendono parte attiva alle proiezioni, interagiscono con i personaggi sullo schermo cantando, urlando frasi in risposta ai dialoghi, lanciando oggetti. Ogni proiezione è diversa dalla precedente.
Questo fenomeno cult supera la nozione comune di film, rivelando l’essenza stessa del cinema come materia incompiuta che ha bisogno di un pubblico per completare il suo processo creativo. Non è un’opera da guardare passivamente: è un rituale collettivo che si rinnova ogni volta, trasformando la sala in un tempio dove celebrare la diversità, il desiderio, la libertà di essere esattamente ciò che si vuole essere.
Il restauro in 4K offre l’occasione di riscoprire la qualità visiva originale del film, i colori saturi, le atmosfere teatrali, la fotografia che oscillava tra il camp e l’horror gotico. Ma soprattutto permette a una nuova generazione di scoprire perché, dopo cinquant’anni, questo musical continua a rappresentare un manifesto di liberazione sessuale e identitaria ancora incredibilmente attuale. In un’epoca in cui le battaglie per i diritti LGBTQ+ sono tutt’altro che concluse, Frank-N-Furter rimane un simbolo potente di resistenza attraverso l’ostentazione, di ribellione attraverso il piacere.
The Rocky Horror Picture Show, diretto da Jim Sharman nel 1975 con un cast che include oltre a Tim Curry e Susan Sarandon anche Barry Bostwick, Richard O’Brien, Patricia Quinn e Charles Gray, dura cento minuti che sembrano esistere fuori dal tempo. È un film che non invecchia perché non è mai stato davvero giovane: è sempre stato immortale, proprio come le labbra cremisi che lo aprono e lo chiudono, pronte a ricominciare il rito ancora una volta, per sempre.