C’è qualcosa di profondamente umano nell’assistere a un piano perfetto che va in pezzi. Kelly Reichardt lo sa bene, e con The Mastermind torna a esplorare quel territorio ambiguo dove le ambizioni si scontrano con la realtà, dove i sogni di gloria si trasformano in fuga disperata.
Dopo la quieta contemplazione di Showing Up, la regista americana riabbraccia il crimine – ma non aspettatevi sparatorie o inseguimenti mozzafiato. Qui il genere thriller viene decostruito, svuotato delle sue convenzioni e riempito con quella stessa malinconia che ha reso First Cow un piccolo gioiello del 2019.
Il titolo è un esercizio di ironia. Il nostro “genio del crimine” è J.B. Mooney, interpretato da un eccellente Josh O’Connor che abbandona i panni dell’aristocratico tormentato per vestire quelli di un architetto disoccupato della provincia americana. Siamo nel Massachusetts degli anni Settanta, tra i sobborghi addormentati del New England dove le foglie autunnali creano un tappeto color ruggine e oro. È in questo scenario da cartolina che J.B. concepisce il suo colpo: rubare alcuni dipinti dal museo d’arte locale per garantire un futuro alla sua famiglia e, forse, zittire finalmente la disapprovazione dei suoi genitori.
La bellezza di questo film sta proprio nel gap tra aspirazione e competenza. J.B. ha studiato il sistema di sicurezza durante le visite domenicali con moglie e figli, è convinto di conoscere i canali giusti per rivendere la refurtiva, si sente pronto. Ma Reichardt, con la sua consueta attenzione ai dettagli e ai tempi dilatati, ci mostra come l’ottimismo di quest’uomo sia costruito su fondamenta fragilissime. Non è un criminale nato, è solo un uomo disperato che ha sopravvalutato drammaticamente le proprie capacità.
Ispirato a una vera rapina avvenuta nel 1972 al Worcester Art Museum, The Mastermind prende le mosse da un fatto di cronaca ma ne fa qualcosa di molto più intimo e personale. Dopo un iniziale momento di azione – la preparazione, l’esecuzione – il film devia dalla sua traiettoria prevista. Reichardt non è interessata al cosa succede dopo, ma al come ci si sente quando tutto crolla. Cosa fa un uomo in fuga senza una meta chiara? Fino a dove si spinge per sfuggire alle conseguenze delle proprie scelte?
Josh O’Connor porta sullo schermo una disperazione impotente che fa male a guardarsi. Il suo J.B. non è un antieroe affascinante, è un uomo comune che affoga nella propria inadeguatezza, che continua a commettere errori perché non sa fare altrimenti. È una performance che richiede sottrazione e controllo, e O’Connor la padroneggia con precisione chirurgica. Purtroppo il resto del cast rimane più in ombra: Alana Haim, nei panni della moglie Terri, non ha abbastanza spazio per brillare, mentre Bill Camp, Hope Davis e persino John Magaro – veterano della scuderia Reichardt – appaiono in ruoli che sfiorano appena la superficie.
Il dettaglio storico è curato con maniacale attenzione. I colori autunnali si fondono perfettamente con l’estetica anni Settanta, creando un’atmosfera di nostalgia che però non scivola mai nel sentimentalismo. C’è qualcosa di malinconico che permea ogni inquadratura, anche nei momenti più leggeri. Reichardt costruisce un mondo in cui è facile capire perché J.B. pensi di poterla fare franca: tutto sembra così tranquillo, così gestibile. E proprio questa quiete rende il suo fallimento ancora più stridente.
Ma è nella struttura narrativa che The Mastermind si rivela più spiazzante. Ogni volta che lo spettatore inizia a investire emotivamente nella riuscita – o almeno nella fuga – del protagonista, la regista devia. Abbandona i beat tradizionali del thriller per indugiare su momenti di stasi, di riflessione silenziosa, di vagabondaggio senza meta. È una scelta coraggiosa che può mettere alla prova anche lo spettatore più paziente. Il film si siede, respira, osserva. Non ha fretta di arrivare da nessuna parte, proprio come il suo protagonista che non sa più dove andare.
Quando arriva il finale – improvviso, quasi brusco – si ha la sensazione di essere stati svegliati da un sogno malinconico. Eppure, nonostante la frustrazione che certi passaggi possono generare, i personaggi di Reichardt continuano a risuonare nella mente. Sono figure che lottano per prosperare in un mondo ingiusto, armati solo della loro inadeguatezza e di una testardaggine quasi commovente.
The Mastermind non è un film per chi cerca adrenalina o colpi di scena. È un crime thriller senza interesse per i brividi e con scarsa attenzione per il crimine stesso. È piuttosto uno studio di carattere su un uomo che non riesce a uscire dalla propria strada, che continua a inciampare negli stessi ostacoli. Kelly Reichardt conferma ancora una volta il suo talento nel raccontare le piccole tragedie quotidiane, quelle che non fanno notizia ma che definiscono le vite di persone comuni. È cinema che chiede tempo e attenzione, che respinge le gratificazioni immediate per offrire qualcosa di più sfuggente e duraturo. Non sarà per tutti, ma per chi sa aspettare, c’è una ricompensa nascosta tra le foglie autunnali del New England.
“The Mastermind” uscirà nelle sale Italiane il 30 ottobre.