Quando un’icona decide di ritirarsi in esilio, non è mai solo una questione geografica. È una ferita che cerca silenzio, un’anima che ha bisogno di metabolizzare.
Carlo Verdone, dopo la gogna mediatica seguita alla terza stagione di Vita da Carlo e l’esperienza a Sanremo, ha scelto Nizza come rifugio. Ma la stagione finale della serie cult, presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, ci racconta qualcosa di più profondo: la storia di un ritorno, di un maestro che trova la sua ultima missione proprio dove tutto è cominciato.
La serie, creata da Verdone insieme a Nicola Guaglianone e Menotti, e diretta dal regista romano con Valerio Vestoso, si apre con un’immagine malinconica: Carlo in soggiorno a Nizza, distante dai riflettori, quasi come un pensionato anticipato. Una condizione che stride con il suo spirito vitale, con quella Roma che lo ha fatto nascere artisticamente e che non può abbandonare del tutto. È l’ex moglie a scuoterlo da questo limbo emotivo, orchestrando un incontro con il direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia. La proposta è inaspettata quanto perfetta: diventare insegnante di recitazione.
“Quest’idea di tornare al CSC è un omaggio a mio padre, che per anni è stato dirigente di questa scuola”
ha raccontato Verdone sul palco della Festa del Cinema di Roma, accanto al co-regista Valerio Vestoso e a Sergio Rubini.
“Io stesso mi sono diplomato lì: per me ha significato tanto nel mio percorso. Ed è anche una dedica ai giovani, ai miei studenti, con i quali ho spesso contrasti: loro vedono il mondo in modo diverso.”
È proprio questo scontro-incontro generazionale a costituire il cuore pulsante della stagione finale. Verdone non si limita a insegnare: si mette in discussione, impara il linguaggio dei suoi studenti ventenni, litiga con loro, si entusiasma insieme a loro. La scrittura, firmata da Carlo Verdone, Pasquale Plastino e Luca Mastrogiovanni, trasforma l’aula del Centro Sperimentale in un ring emotivo dove si consuma un passaggio di testimone tanto necessario quanto doloroso.
Ma non sarebbe una vera stagione di Vita da Carlo senza un conflitto degno di nota. E chi meglio di Sergio Rubini può incarnare l’amico-nemico perfetto? Anche lui insegnante al CSC nella finzione seriale, Rubini porta con sé un conto in sospeso che dura da decenni: quelle battute tagliate in Al lupo al lupo, il film che segnò il loro primo incontro cinematografico.
“Soffro il fatto che mi abbia rubato la scena”
ha scherzato Rubini durante la conferenza stampa, rivelando però una verità profonda sul loro rapporto.
“Sul suo set impari moltissimo: è come entrare a casa sua, ti apre il suo mondo. Mi ha insegnato la semplicità, è sempre rimasto con i piedi per terra, ed è un vero insegnante di cinema.”
La rivalità tra i due, alimentata nella serie dal desiderio di Rubini di cacciare via Verdone dal Centro Sperimentale, diventa il dispositivo narrativo attraverso cui la serie esplora temi di orgoglio professionale, amicizia virile e competizione artistica. Ma è anche un modo per celebrare un sodalizio che ha attraversato decenni di cinema italiano.
“È un attore al quale sono molto legato, tornare a recitare con lui è stato divertente e bello. Nei contrasti diamo entrambi il meglio di noi.”
Il vero colpo di scena emotivo arriva però nell’immagine finale della stagione, quella che Verdone stesso ha definito come il senso dell’intera serie: un applauso al Centro Sperimentale, durante il saggio di regia realizzato con i suoi studenti.
“Mi volto e vedo i miei studenti felici”
ha spiegato il regista.
“È l’uscita di scena del mio personaggio, che pensa: adesso tocca ai giovani. Mi volto e lascio che gli applausi vadano a loro.”
In quel fotogramma si condensa tutta la parabola di Vita da Carlo: una serie che è sempre stata, fin dalla prima stagione, un dialogo tra la memoria personale di un’icona del cinema italiano e la necessità di reinventarsi continuamente. Ma questa volta il dialogo si fa testamento artistico, passaggio di consegne, benedizione generazionale.
“Vedo una generazione di ventenni davvero bravi, che meritano occasioni”, vanno messi alla prova, sia come attori che come registi. Nonostante il momento difficile, vedo molta intelligenza e tanta passione, e questo mi conforta.”
È significativo che Verdone abbia scelto proprio il Centro Sperimentale come location simbolica per questo congedo. Un luogo che porta il DNA di suo padre, dove lui stesso si è formato, e che rappresenta la fucina del cinema italiano che verrà. Un cerchio che si chiude per aprirne un altro, in una continuità che è il vero lascito di ogni maestro.
Il regista ha voluto pubblicamente ringraziare Valerio Vestoso, co-regista della serie:
“Ha fatto un lavoro incredibile. È bravo, serio, e gli auguro tutto il bene possibile.”
Un riconoscimento che suona anche come un’altra forma di passaggio di testimone, questa volta dietro la macchina da presa.
E Roma? La città che Verdone ha raccontato per cinquant’anni di cinema resta il centro gravitazionale della sua esistenza, anche quando cerca di allontanarsene.
“Lascio Roma solo per andare in campagna”, quando non ne posso più e ho bisogno di pensare a me stesso, mi ritiro nella casa dei miei, dove probabilmente sono nato. Non sopporto la volgarità, la cagnara, il traffico, e la difficoltà di girare senza che qualcuno ti fermi. Amo la gente, ma a volte ho bisogno di sentirmi uno sconosciuto, uno tra tanti. Così vado nella casa in Sabina.”
La stagione finale di Vita da Carlo non è semplicemente la conclusione di una serie di successo su Paramount Plus. È un atto d’amore verso il cinema, verso Roma, verso i giovani che rappresentano il futuro di un’industria in difficoltà. È la storia di un ritorno che diventa addio, di un maestro che trova la sua ultima lezione proprio nell’atto di cedere il palco. E in quel gesto, in quel voltarsi verso gli studenti applaudenti, c’è tutta la grandezza di chi sa quando è il momento di farsi da parte, non per sparire, ma per permettere ad altri di brillare.