C’è un momento nella vita in cui i sogni smettono di brillare come promesse e iniziano a pesare come interrogativi. Alberto Palmiero lo sa bene, perché quel momento l’ha vissuto sulla propria pelle, e ha avuto il coraggio di trasformarlo in cinema.

Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Tienimi presente è l’opera prima di un regista trentenne di Aversa che ha scelto la strada più pericolosa e sincera: raccontare sé stesso, la propria crisi, il proprio vuoto esistenziale. E lo ha fatto con una delicatezza e un’autoironia che trasformano una storia personale in qualcosa di universale.

Alberto Palmiero è un ragazzo che ha studiato regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, ha realizzato qualche cortometraggio apprezzato, ma la carriera stenta a decollare. Mentre l’amico Mino Capuano sta già girando il suo primo lungometraggio, lui si ritrova a vivere in appartamenti spogli nella periferia romana, a fare serate a San Lorenzo e comparsate in una serie di Marco Bellocchio. Fino a quando la frustrazione diventa insostenibile e decide di tornare a casa, ad Aversa, lasciandosi alle spalle Roma e i sogni che sembravano ormai irraggiungibili.

Ma cosa si fa quando si torna indietro? Cosa aspetta un giovane che ha inseguito il cinema e si ritrova nella provincia campana? Ci sono mamma e papà, comprensivi all’inizio, poi sempre meno pazienti. Ci sono gli amici di sempre, tra cui un aspirante musicista perennemente nascosto dietro occhiali da sole, come un Dylan o un Godard di provincia. C’è una vecchia fiamma, un nuovo cane, e soprattutto un vuoto che assomiglia tremendamente a quello provato a Roma. Perché il problema, come spesso accade, non è geografico ma interiore.

Palmiero costruisce il suo film con mezzi minimi, girando con pochissime persone e facendo recitare amici e parenti. Persino i produttori appaiono nei panni di sé stessi: Gianluca Arcopinto, come pure Bellocchio e Capuano, diventano personaggi di questa autofiction che non ha paura di guardarsi allo specchio. È un’operazione ombelicale? Certamente. Ma funziona, perché dietro l’autoironia c’è qualcosa di profondamente vero, qualcosa che va oltre la dimensione personale e tocca corde universali.

Le crisi come quella di Alberto, piccole o grandi, lavorative o esistenziali, le abbiamo attraversate tutti. E come lui le abbiamo superate quando abbiamo trovato il coraggio di smettere di stare fermi e di fare qualcosa, di provare qualcosa. Senza paure, quelle stesse paure che avevano allontanato Palmiero da Roma e dalle sue aspirazioni. C’è una scena che racchiude il senso di tutto: un amico, con cui aveva studiato informatica e al quale si era rivolto per trovare un lavoro in quel settore, gli dice senza mezzi termini: “E che me ne fotte che tu non sei bravo? Non è importante se sei bravo, l’importante è che ti fa sentire vivo, che ti fa stare bene”.

È questa la lezione che il film offre, con una semplicità disarmante. Non conta essere perfetti, non conta rispondere alle aspettative altrui o ai parametri del successo. Conta fare ciò che ti fa sentire vivo. E inutile dirlo, Alberto Palmiero è bravo davvero. Forse lo sa, forse se lo dimentica nei momenti di sconforto, ma quella timidezza e quella malinconia che mette sullo schermo sono autentiche, non sono affettazioni cinematografiche.

È impossibile non pensare a Massimo Troisi guardando Tienimi presente. E naturalmente a Nanni Moretti, ma declinato in minore, senza la sicurezza e la spavalderia del maestro. È lo stesso territorio esplorato da Filippo Barbagallo, sensibilità affini che guardano al cinema italiano d’autore con rispetto ma senza reverenza paralizzante. La malinconia di Palmiero funziona, come funziona il suo disincanto e la sua timidezza. Funziona lo sguardo sornione e ironico che posa prima su sé stesso, poi sul resto del mondo, cinema compreso.

In un’epoca in cui l’autorappresentazione rischia sempre di scivolare nell’egocentrismo, Palmiero compie un miracolo: costruisce un film tutto attorno a sé senza far trasparire nemmeno un’ombra di ego o prosopopea. C’è solo un ragazzo che cerca di capire chi è, cosa vuole, dove sta andando. E che nel farlo ci regala un esordio sincero, divertente e commovente, capace di parlare a chiunque si sia mai sentito inadeguato, spaesato, fuori posto.

Tienimi presente è un film che non guarisce la malinconia fumando una canna e guardando un altro film, come fa uno dei personaggi più superficiali della storia. È un film che la malinconia la attraversa, la accetta, la trasforma in materia narrativa. E alla fine, con discrezione e senza clamore, suggerisce che forse l’unico modo per uscirne è fare esattamente quello che Palmiero ha fatto: prendere una macchina da presa, chiamare gli amici, e raccontare la propria storia. Perché il cinema, quando è vero, non ha bisogno di essere perfetto. Ha solo bisogno di farti sentire vivo.

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