Venticinque anni. Un quarto di secolo passato a sognare, progettare, costruire nella mente un universo che già esisteva sulla carta dal 1818.

Guillermo del Toro ha coltivato il suo Frankenstein come un giardiniere ossessivo cura una pianta rara, aspettando il momento giusto per farla fiorire. Il risultato è un film che non tradisce l’attesa: una lettera d’amore viscerale al romanzo di Mary Shelley, dove bellezza e orrore nascono dalla stessa ferita.

Il regista messicano ha sempre trovato nel classico gotico un riflesso della propria estetica. La sua devozione per il grottesco, quella capacità unica di far convivere tenerezza e mostruosità nello stesso fotogramma, trova nel capolavoro di Shelley il suo manifesto perfetto. E c’è una frase in particolare che ha guidato ogni scelta creativa, pronunciata dalla creatura stessa: “Ho amore in me di cui difficilmente potete immaginare l’entità, e rabbia di cui non credereste l’intensità. Se non posso soddisfare l’uno, mi abbandonerò all’altra”.

Jacob Elordi incarna questa dualità con una forza che lascia senza fiato. Nella sequenza d’apertura, la sua figura emerge dal ghiaccio come un uragano di carne e furia, caricando verso una nave intrappolata nei ghiacci. Non è un mostro da film horror convenzionale: è un tornado di passione tradita, un essere che assorbe colpi di fucile e spacca soldati con l’unica missione di raggiungere Victor Frankenstein, interpretato da Oscar Isaac. Quando il capitano della nave, Lars Mikkelsen, riesce a farlo sprofondare nel mare gelido e salva il dottore ferito, inizia il vero viaggio nel cuore di tenebra di questa storia.

Del Toro non ha fretta di arrivare alla creazione del mostro. Dedica tempo prezioso a Victor, costruendo strato dopo strato la sua psicologia tormentata. La morte della madre durante il parto, con Mia Goth in un doppio ruolo che risuona di simbolismi edipici, installa nel giovane Victor un’ossessione: sovvertire la morte stessa. Il rapporto conflittuale con il fratello William, interpretato da Felix Kammerer, e l’amore proibito per Elizabeth, anch’essa Goth, tessono una rete di desideri impossibili e ambizioni proibite.

È questa immersione totale nella follia di Victor che rende la creazione del mostro non un momento di spettacolo, ma l’inevitabile conseguenza di un’ossessione che ha divorato un uomo dall’interno. Del Toro ci intrappola nella stessa stanza mentale del dottore, facendoci complici della sua hybris prima ancora che il primo lampo elettrico dia vita alla creatura.

Ma il vero colpo di genio arriva quando la prospettiva si ribalta. Il film diventa un’esperienza doppia, uno specchio che riflette due solitudini inconciliabili. La compassione con cui il regista mostra il mostro che cerca di comprendere la propria esistenza trasforma Frankenstein in qualcosa di più di un horror gotico: diventa una meditazione sulla paternità fallita, sull’abbandono, sulla violenza come linguaggio appreso.

Dan Laustsen, direttore della fotografia, e Kate Hawley, costumista, hanno costruito un mondo che respira opulenza decadente. Ogni fotogramma è un dipinto che potrebbe stare in un museo, ma mai fine a se stesso: serve sempre la narrazione, amplifica l’emozione, sottolinea il contrasto tra la bellezza che Victor cerca di creare e l’orrore che ne deriva.

Il film non nasconde la sua natura di favola ammonitrice. L’ambizione che soffoca la compassione è il tema ricorrente, il battito cardiaco sotto ogni scena. Quando Elizabeth esclama “Solo i mostri giocano a fare Dio”, non sta semplicemente condannando Victor: sta pronunciando il verdetto su un’intera visione del mondo, quella che crede di poter manipolare la vita senza conseguenze.

Frankenstein di Guillermo del Toro non reinventa la storia, la onora con una fedeltà quasi religiosa. Ma in quella fedeltà trova spazio per esplorare la complessità del legame paterno tra creatore e creatura, quella danza mortale tra chi dà la vita e chi la riceve senza averla chiesta. È un film che vibra di passione trattenuta per un quarto di secolo, che esplode sullo schermo con la forza di chi ha saputo aspettare il momento giusto per dire la sua verità.

Il risultato è un’opera che non chiede scusa per la sua grandiosità, per i suoi 149 minuti di immersione totale in un incubo romantico. È il Frankenstein che solo Del Toro poteva realizzare: reverente verso la fonte, ma inconfondibilmente suo. Un tributo che diventa, paradossalmente, la cosa più originale che si potesse fare con una storia raccontata mille volte.

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