C’è un filmato del 1979 custodito nelle teche Rai che racchiude l’essenza inafferrabile di Rino Gaetano meglio di qualsiasi retrospettiva.
L’artista canta “Ahi Maria” su un ring, mentre due pugili si sfidano a colpi. Lui gironzola tra i loro pugni, con quel sorriso beffardo e quella capigliatura ribelle da eterno bambino che sfuggiva alle forbici del barbiere. “E questo sapore strano che è fatto di libertà mi dice che oggi qualcosa è cambiato in me” recita il verso, e quella libertà è esattamente ciò che rendeva Gaetano un artista fuori dal tempo, dalle ideologie, dalle categorie.
Giorgio Verdelli, regista già rodato nei documentari biografici su Paolo Conte, Ezio Bosso ed Enzo Jannacci, tenta l’impresa di immortalare questo cantastorie incollocabile in Rino Gaetano sempre più blu, presentato al RoFF20 nella sezione Freestyle. Ma come si fa a raccontare un marziano? Come si inquadra chi boxava nel vento, da solo, in mezzo ai sogni di lotta dei ruggenti anni Settanta?
Il documentario si affida a un collage di testimonianze: Sergio Cammariere e Danilo Rea per la musica, Claudio Santamaria e Tommaso Labate per le parole, poi ancora Riccardo Cocciante, Lucio Corsi e Brunori Sas. Verdelli setaccia prospettive con la smania di un giornalista d’assalto, cercando di comporre i frammenti di un artista dai suoni e versi impossibili da collocare. Cocciante lo definisce un “clown che faceva cose serissime”, e forse è proprio questa la chiave che il film fatica a girare nella serratura.
Il problema è che Rino Gaetano sempre più blu vorrebbe essere troppo. Celebrativo fino al didascalico, strizza l’occhio a diversi registri senza abbracciarne davvero nessuno. Imbocca la strada dell’artista apartitico tra gli ex sessantottini di Parco Lambro, poi racconta delle trappole televisive, infine guarda alla musica bambinesca e poetica dalla “forza paesaggistica”. Verdelli tenta una narrazione cronologica, ma il discorso appare spezzettato, interrotto ogni volta da nuove prospettive che si sovrappongono senza mai trovare un centro di gravità.
La verità è che Rino Gaetano era soltanto leggero. Come il marziano a Roma di Flaiano o l’uomo di fumo di Palazzeschi. Era scisso tra la satira e il sacro dei suoi versi, sospeso tra una “perfetta bestemmia e una preghiera di dolosa letizia”. Volevano farne l’alfiere di battaglie che non gli appartenevano, ma lui restava inafferrabile, coltissimo e intimo allo stesso tempo, a suo modo politico senza mai essere schierato.
Il film di Verdelli sembra avere tanto da dire sulla musica, decisamente meno sul cinema. La frammentazione narrativa che caratterizza la struttura del documentario finisce per rispecchiare involontariamente la difficoltà di catturare un artista immortale: ogni tentativo di inquadrarlo rischia di perdere pezzi per strada. E così, paradossalmente, questo ritratto celebrativo diventa la dimostrazione più evidente di quanto sia impossibile contenere Rino Gaetano in una cornice definita.
Forse è proprio questo il destino dei cantastorie che boxano nel vento: possono essere raccontati all’infinito, ma mai davvero compresi. Restano lì, leggeri e inafferrabili, a gironzolare tra i nostri tentativi di spiegazione come su quel ring del 1979, con il sorriso beffardo di chi sa che la libertà non si racconta, si vive.