Una donna corre sotto la pioggia battente per le strade del ghetto ebraico di Roma. È la notte del 15 ottobre 1943.

Si ferma in piazza, urla, supplica i suoi concittadini di fuggire, di nascondersi, di salvarsi. Ma nessuno le crede. Per tutti è “la matta del Ghetto”, Elena Di Porto, quella che ha lasciato il marito, che porta i pantaloni, che beve all’osteria e picchia come un uomo sul ring. La storia la ricorderà diversamente: come l’eroina dimenticata che cercò di impedire una delle pagine più tragiche della Shoah italiana.

Il 16 ottobre 1943, 1259 persone – 689 donne, 363 uomini e 207 bambini – furono strappate dalle loro case dalle truppe naziste con la collaborazione dei fascisti. Di quei 1023 deportati ad Auschwitz, solo 16 fecero ritorno. È il rastrellamento del ghetto di Roma, una ferita mai rimarginata nella memoria collettiva del nostro Paese.

Questa vicenda, insieme alla figura straordinaria di Elena Di Porto, arriva ora al cinema con Elena del Ghetto, film diretto all’esordio da Stefano Casertano, presentato in Grand Public alla XX Festa del Cinema di Roma. Il regista, che firma anche la sceneggiatura con Francesca Della Ragione e Alessandra Kre, porta sullo schermo un personaggio già celebrato nel libro di Gaetano Petraglia “La matta di piazza Giudia” e nello spettacolo teatrale con Paola Minaccioni.

Ma chi era davvero Elena Di Porto? Una donna che, nella Roma degli anni Quaranta, aveva osato infrangere ogni convenzione sociale: aveva abbandonato un marito “mollaccione”, praticava il pugilato, era un’asso nel biliardo, manteneva i suoi due figli lavorando come domestica. Una figura larger than life che incarnava una ribellione esistenziale prima ancora che politica. La sua indisciplina, la sua impetuosità, il suo rifiuto di sottomettersi alle regole del conformismo l’avevano resa un’emarginata agli occhi della comunità. Eppure quella stessa indisciplina sarebbe diventata resistenza.

Il film affida il compito titanico di incarnare Elena a Micaela Ramazzotti, lasciata libera di esplorare ogni sfumatura di questo personaggio travolgente. L’attrice si immerge nel dialetto giudaico-romanesco, soffia sul ciuffo ribelle che le cade sulla fronte con la gestualità di una commediante classica, costruisce un’interpretazione totale e generosa. Attorno a lei ruota un cast corale che include Giulia Bevilacqua nei panni della cognata solidale, Marcello Maietta come lo stracciarolo innamorato, Caterina De Angelis nel ruolo di Mariella Desideri, una divetta di regime, e Valerio Aprea come il cupo fratello di Elena.

La produzione porta la firma storica della Titanus, con quello scudo iconico che volteggia sulle note del leggendario motivetto d’apertura. È un richiamo potente al cinema popolare italiano che fu, a quella tradizione di racconti corali ambientati tra i vicoli della Capitale. L’eredità di Luigi Magni si percepisce nel ritmo del fraseggio dialettale, in quel musical sommerso che sembra voler esplodere da ogni scena, nella volontà di inquadrare il destino del popolo oppresso attraverso personaggi di contorno che diventano simboli universali.

Eppure il film, nobile negli intenti, fatica a trovare un equilibrio tra la gravità del racconto storico e la leggerezza narrativa necessaria per coinvolgere emotivamente lo spettatore. Il passo della narrazione oscilla tra i bozzetti di quartiere e la grande storia, tra il dramma individuale e quello collettivo, senza mai riuscire a fondere pienamente questi elementi in un linguaggio cinematografico coeso. Le musiche sottolineano ogni passaggio con eccessiva enfasi, mentre il budget contenuto per un period drama si fa sentire nella ricostruzione d’epoca.

Ma oltre i limiti formali, resta centrale la domanda che attraversa l’intero racconto: cosa succede quando chi dice la verità viene etichettato come pazzo? Elena Di Porto, dopo aver affrontato a viso aperto i fascisti che controllavano il quartiere, venne internata in manicomio. Il suo destino racconta una storia parallela e altrettanto terribile: quella del trattamento coercitivo subito dai non-allineati, da chi non si piegava al consenso, da chi osava vedere ciò che gli altri non volevano vedere.

Una volta entrata nella Resistenza, Elena fu mandata al confino. La sua voce fu silenziata due volte: prima come donna ribelle, poi come oppositrice politica. Il cinema italiano oggi recupera la sua figura, restituendole dignità e memoria, anche se con un risultato artistico che non rende piena giustizia alla potenza del personaggio storico.

Elena del Ghetto ci ricorda che spesso le voci più importanti sono quelle che vengono ignorate, ridicolizzate, cancellate. Quella notte del 15 ottobre 1943, mentre correva sotto la pioggia urlando il suo avvertimento inascoltato, Elena Di Porto incarnava una verità che la Storia avrebbe tragicamente confermato poche ore dopo. Non era pazza. Aveva solo visto il futuro con lucidità insopportabile.

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