C’è un silenzio assordante che sta calando sul set dell’industria cinematografica italiana. Non è la quiete prima di un ciak, ma il gelo che precede una catastrofe annunciata.
L’ipotesi di un drastico taglio al Fondo Cinema e Audiovisivo contenuta nella bozza di legge di bilancio ha scatenato una reazione a catena che dalle sale di montaggio arriva fino ai palazzi del potere, passando per i festival e gli uffici delle associazioni di categoria.
Le cifre raccontano una storia che va oltre i numeri: 124.000 posti di lavoro appesi a un bilancino politico. Scenografi, costumisti, sarti, attrezzisti, elettricisti, autisti, sceneggiatori, autori, attori. Un esercito silenzioso di professionisti che da anni costruisce l’immaginario del paese, quello che viene proiettato nelle sale cinematografiche e che viaggia attraverso le piattaforme streaming fino agli angoli più remoti del mondo.
Un coro compatto di voci si è levato contro questa prospettiva. Le associazioni 100autori, AFIC, AGICI, AIDAC, AIR3, ANAC, APA, CNA, Doc/it e WGI hanno rivolto un accorato appello al Presidente della Repubblica, al Governo e al Parlamento affinché il Fondo Cinema e Audiovisivo resti invariato nei suoi stanziamenti complessivi. Non si tratta solo di preservare un settore culturale, ma di salvaguardare un comparto strategico per l’economia e l’immagine dell’Italia.
L’Anica, Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Digitali, ha usato parole che non lasciano spazio a interpretazioni: “Il colpo di scure al Tax Credit sarebbe un disastro annunciato”. Le conseguenze? Immediate e devastanti. Le produzioni programmate per il 2026 salterebbero, quelle del 2027 verrebbero rinviate o abbandonate del tutto. Una paralisi che non colpirebbe solo i grandi nomi, ma l’intera filiera della distribuzione e dell’esercizio cinematografico.
C’è un dettaglio che rende ancora più paradossale questa situazione: il sistema trova copertura economica dal pagamento delle imposte da parte delle imprese del settore stesso, come previsto dall’articolo 13 della Legge 220/2016. In altre parole, il cinema italiano si autofinanzia attraverso il proprio successo, eppure rischia di vedere decurtate le risorse che gli permettono di continuare a esistere.
Il prodotto italiano pesa per quasi il 30% sul box office nazionale. Significa che tre biglietti venduti su dieci sono per film nostrani. Tagliare i fondi non significa solo ridurre la quantità di produzioni, ma compromettere un dialogo con il pubblico che stava finalmente ripartendo grazie agli ultimi successi del cinema e dell’audiovisivo italiano. Meno film, meno serie, meno documentari, meno animazione italiana: una desertificazione culturale con ricadute economiche incalcolabili.
Il paradosso diventa ancora più stridente quando si guarda oltre confine. Mentre l’Italia pensa a ridimensionare i propri incentivi, il resto del mondo li sta potenziando. Francia, Regno Unito, Canada, persino paesi emergenti stanno investendo massicciamente per attrarre produzioni internazionali. Le associazioni avvertono: “Già in queste ore, dopo la diffusione della notizia, ci sono segnali di disimpegno da parte dei partner internazionali, oltre ad aver messo in allerta il sistema bancario che potrebbe mettere in discussione il sostegno sinora concesso al settore”.
Dal festival Alice nella città, giunto alla sua ventitreesima edizione, i direttori artistici Fabia Bettini e Gianluca Giannelli hanno espresso tutta la loro amarezza: “Proprio in questi giorni, quando siamo circondati dall’energia e dall’entusiasmo di tantissimi giovani che vivono il cinema come un luogo di incontro, confronto, dialogo e crescita, apprendere dell’ipotesi di un taglio al Fondo Cinema e Audiovisivo ci amareggia profondamente e preoccupa”.
La loro riflessione tocca un punto cruciale: sostenere l’audiovisivo significa sostenere il futuro del paese e la sua identità culturale. Non si tratta solo di preservare un’industria, ma di proteggere uno strumento di educazione e formazione civile, soprattutto per le nuove generazioni. Il cinema racconta chi siamo, dove andiamo, cosa sogniamo. Ridurre le risorse significa interrompere un percorso di crescita ed evoluzione che il settore ha faticosamente intrapreso negli ultimi anni.
L’impatto si estende ben oltre la produzione diretta. L’industria degli effetti digitali, il doppiaggio, i fornitori di servizi VOD che hanno investito massicciamente in Italia negli ultimi anni, Rai, Mediaset e Sky per i film e le serie che realizzano, l’industria dell’animazione che impiega migliaia di giovani talenti, gli esportatori di contenuti: tutti rischiano di trovarsi improvvisamente senza prodotto da distribuire, senza progetti da sviluppare, senza futuro da immaginare.
C’è anche un effetto collaterale spesso sottovalutato: il turismo. Negli ultimi anni l’immaginario audiovisivo italiano ha valorizzato enormemente il racconto del paese all’estero. Quante persone hanno scelto di visitare Roma dopo aver visto una serie ambientata nella capitale? Quanti hanno scoperto borghi sconosciuti grazie a un documentario o a un film indipendente? Il cinema è una vetrina che promuove l’Italia nel mondo, un ambasciatore silenzioso ma efficacissimo.
Le associazioni chiedono con forza un confronto urgente, un tavolo di lavoro serio e condiviso che guardi al domani senza compromettere il presente. La richiesta è chiara: eliminare la proposta di taglio prevista nella bozza di legge di bilancio e avviare un percorso unitario di riforma che tenga conto delle specificità del settore e delle sue potenzialità di crescita.
Perché il cinema italiano è un’eccellenza riconosciuta nel mondo. Un sistema solido che genera occupazione, valore economico e reputazione per il paese. Tagliare ora significherebbe sprecare anni di investimenti, perdere competitività internazionale, favorire la delocalizzazione delle produzioni e, soprattutto, disperdere competenze qualificate che sono il vero capitale di questo settore.
La domanda che aleggia ora sui set, nelle sale di proiezione, negli uffici di produzione è una sola: il governo ascolterà questo appello corale? La risposta arriverà nelle prossime settimane, ma una cosa è certa: il tempo per agire è adesso, prima che il sipario cali definitivamente su un’industria che stava finalmente ritrovando la sua voce.