Tokyo. Una città che pulsa di luci, solitudini e sogni infranti.

Ed è qui che si muove Phillip Vandarpleog, un americano malinconico interpretato da un Brendan Fraser vulnerabile e intenso, che accetta un lavoro tanto assurdo quanto profondamente umano: impersonare un parente su richiesta. Non davanti a una cinepresa, ma nella vita vera. O meglio, in una sua surreale imitazione.

La regista giapponese Hikari, già nota per “Beef”, ci trascina in un mondo che sembra uscito da un sogno febbrile: quello delle agenzie giapponesi che affittano attori per impersonare familiari, amici, amanti. Un concetto già esplorato da Werner Herzog nel suo “Family Romance, LLC”, ma qui rielaborato con una delicatezza che sa di ferita aperta. E Fraser, con la sua espressività dolente, è il cuore pulsante di questa storia.

Phillip è un uomo alla deriva. Un tempo mascotte di un dentifricio, oggi vive in un appartamento minuscolo, circondato da cartoni pubblicitari che lo ricordano come un eroe da supermercato. Osserva la vita degli altri dalla finestra, come se fosse un film a cui non ha mai avuto accesso. Finché non riceve una chiamata: un funerale finto, un ruolo da “americano triste”. Non sa cosa lo aspetta, ma accetta. E lì, tra attori che piangono e un uomo che finge di essere morto per sentirsi importante, qualcosa si spezza. O forse si accende.

Il mondo di Rental Family è un teatro dell’assurdo, ma anche un rifugio per chi ha bisogno di credere, fosse anche solo per un’ora, che qualcuno li ami. Fraser si arrampica nella bara, come se cercasse di capire se la sua esistenza abbia davvero un senso. E noi, spettatori, tratteniamo il fiato.

Il film non è perfetto. Il tono ondeggia tra il sentimentale e il manipolatorio, e manca quell’ironia che avrebbe potuto renderlo più potente. Ma Fraser ci mette l’anima. Troppa, forse. E se Robin Williams era l’unico capace di bilanciare sincerità e tenerezza in ruoli simili, Fraser ci prova con tutta la sua fragilità.

La sua crisi esistenziale esplode quando deve impersonare il padre assente di una bambina, Mia, per aiutarla ad entrare in una scuola d’élite. La madre, interpretata da Shino Shinozaki, gli chiede di mentire. Ma Phillip, in quella bugia, trova una verità più profonda: il bisogno disperato di connessione. E mentre cerca di convincere Mia che lui è davvero suo padre, noi ci chiediamo se non sia proprio questo il senso dell’essere attori: dare amore, anche se non è reale.

“Rental Family” non è un film da grandi produzioni. È una piccola gemma che brilla di malinconia e tenerezza. Phillip infrange le regole, aiuta un anziano a evadere da casa, rischia tutto per regalare un momento di felicità. E quando lo vediamo in un film per la TV, capiamo che anche lui, come noi, cerca solo un posto dove sentirsi vero.

Hikari ci regala una storia che parla di finzione, ma che ci colpisce con una sincerità disarmante. E Fraser, con le sue rughe, i suoi silenzi e la sua dolcezza, ci ricorda che a volte, per sentirsi vivi, basta fingere di essere amati.

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