C’è un momento, appena due minuti di cinema puro, che racchiude tutta l’essenza de “La torta del presidente”.

Tre inquadrature, due punti di vista, e una storia che ti entra nelle ossa: un uomo bendato, gli occhi velati da un panno striato di sangue, racconta tra risate la sua tragedia. Una settimana prima delle nozze combinate, una notte di sbronza con gli amici, poi un missile americano che squarcia l’alba. La vista perduta, le schegge nell’anima. E lui, quasi sollevato, che confida alla piccola Lamia e alla nonna Bibi: almeno non dovrò preoccuparmi se mia moglie è brutta.

Questo è il cinema di Hasan Hadi. Un esordio che sa scavare nella ferita dell’Iraq degli anni Novanta con una maturità narrativa sorprendente, trasformando quella che potrebbe sembrare una fiaba sociale in un manifesto poetico sulla sopravvivenza sotto la dittatura di Saddam Hussein. Presentato al Roma Film Festival nella sezione Alice nella Città, il film conquista proprio per questa sua capacità unica: mostrare violenza e dolcezza nello stesso fotogramma, senza mai cedere al compiacimento o all’edulcorazione.

Al centro dell’odissea ci sono Saeed, ladro per necessità perché figlio di un mendicante storpio, e la piccola Lamia, interpretata con grazia straordinaria da Baneen Ahmad Nayyef. Due bambini risucchiati in un gorgo kafkiano dove preparare una torta per il dittatore diventa questione di vita o morte. L’Iraq di quegli anni è un paese stritolato dall’isolamento internazionale: inflazione galoppante, corruzione necessaria a ogni livello per far girare gli ingranaggi della vita quotidiana, e le conseguenze devastanti dei bombardamenti statunitensi che piovono sulla popolazione civile.

Hadi sceglie uno sguardo che levita a mezza altezza, un equilibrio perfetto tra denuncia e narrazione. Non si compiace delle efferatezze, non le nasconde dietro metafore consolatorie. Il suo è un cinema partecipe che trasforma il dramma collettivo in racconto individuale, seguendo l’odissea picaresca di due piccoli eroi che attraversano un paese in ginocchio. Quando Lamia riesce a fuggire dal cinema porno dove l’aveva trascinata un personaggio viscido come l’ammazzagalline che la rapisce, il film non grida allo scandalo: registra, testimonia, costruisce un mosaico di umanità ferita ma non doma.

La sceneggiatura attinge alla struttura della fiaba, con un unico momento di cedimento: la classica crisi tra i co-protagonisti che qui appare troppo posticcia, troppo meccanica rispetto alla fluidità organica del resto. Ma è un’imperfezione minima in un corpo narrativo che sa alternare momenti di tenerezza struggente a sequenze di violenza autoctona e straniera, dove i missili americani si sommano alla brutalità del regime.

Straordinaria è la galleria di personaggi che popola questo viaggio: il maestro, mostro di feroce adattamento ai dettami dittatoriali; la nonna Bibi, interpretata con profondità da Waheed Thabet Khreibat, compassionevole fino al punto di essere disposta a dare in affidamento l’amata nipote pur di strapparla a un futuro di miseria; il portalettere con il suo indovinello sul mestiere che diventa una gag di leggerezza necessaria in mezzo all’orrore quotidiano.

L’intelligenza del film sta anche nel rifiutare la vieta contrapposizione città-campagna. I protagonisti vengono risucchiati nel pericolo proprio durante una funzione scolastica, trasformata in liturgia brutale al servizio del culto della personalità. Ai poverissimi contadini che sopravvivono a stento nelle capanne sulle sponde del fiume – ambientazione di grande impatto visivo che Hadi filma senza mai scivolare nello sguardo esotico – viene imposto di preparare una torta che li sprofonda definitivamente nell’indigenza. E il colmo, che stavolta non fa ridere nessuno, è che il dittatore potrebbe mangiarsi tutti i dolci del mondo: ha già divorato la dignità del suo popolo, lo ha gettato in un clima di terrore permanente dove ogni gesto quotidiano può trasformarsi in condanna.

La torta del presidente è un’opera prima che colpisce per la capacità di attraversare la Storia con passo felpato ma sguardo fermo. Hadi costruisce un cinema che sa essere insieme denuncia civile e racconto universale, odissea a misura di bambino e affresco di un’epoca. Un film che trova la sua forza proprio in quella crasi perfetta tra dolcezza e violenza, dove persino la cecità di uno sposo può diventare, nell’economia perversa di un paese in ginocchio, un’inaspettata forma di sollievo.

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