Can Yaman riporta in vita il mito di Salgari in una serie che unisce avventura, libertà e malinconia. Presentata alla 20ª Festa del Cinema di Roma.
C’è un profumo di mare e leggenda che aleggia tra le sale della Festa del Cinema di Roma 2025.
Tra anteprime internazionali e grandi ritorni, uno dei titoli più attesi è senza dubbio “Sandokan”, la serie firmata da Lux Vide e Rai Fiction che riporta sullo schermo il mito immortale del pirata gentiluomo.
Un’operazione ambiziosa e delicata, che affonda le radici nella tradizione per parlare a un pubblico nuovo, con uno sguardo cinematografico e contemporaneo.
A incarnare il leggendario eroe malese c’è Can Yaman, volto e cuore di una narrazione che intreccia mare, giustizia e amore proibito.
Accanto a lui, Alessandro Preziosi nel ruolo di Yanez e Laurence Bedard in quello di Marianne, la “Perla di Labuan”.
Borneo, inizio Ottocento. Le acque sono calme solo in apparenza: la tribù dei Dayak vive sotto il dominio coloniale britannico, guidato dal crudele Lord Brooke, è in questo mondo sospeso tra schiavitù e rivolta che riemerge Sandokan, il pirata che il mare ha reso leggenda.
Travestito da mercante, si infiltra nell’isola di Labuan per combattere il potere degli invasori e difendere la sua gente. Ma il destino lo attende in una forma inattesa: l’amore.
Quando incontra Marianne, la figlia del governatore, la sua lotta si intreccia con il desiderio, l’onore e il perdono. Tra battaglie epiche, duelli sotto il sole e sguardi sospesi tra il mare e il cielo, la serie rilegge la storia come un poema d’avventura e redenzione.
Rivisitare Sandokan significava sfidare un fantasma.
Eppure questa nuova versione sceglie la via più difficile — quella dell’emozione — e la percorre con sorprendente grazia.
Can Yaman offre una prova fisica e interiore insieme: il suo Sandokan è un eroe malinconico, diviso tra rabbia e compassione, tra il fuoco della ribellione e la dolcezza di chi sa ancora amare.
La sua presenza scenica domina l’inquadratura, ma lascia spazio al silenzio, alle pause, ai respiri.
Alessandro Preziosi, nei panni di Yanez, restituisce equilibrio e ironia al racconto: è il compagno ideale, lo specchio terreno dell’idealismo di Sandokan.
La loro intesa è la vera ancora emotiva della serie.
Visivamente, “Sandokan” è un film più che una serie: la fotografia calda e tropicale, la colonna sonora avvolgente, e la cura nei costumi evocano un senso di meraviglia che appartiene al grande schermo.
Le scene d’azione si fondono con momenti di pura poesia visiva — il mare che riflette il tramonto, la sabbia che diventa memoria, il sangue che si mescola all’acqua.
La regia costruisce un racconto classico, ma con una sensibilità moderna: l’eroe non è più solo un simbolo di forza, ma un uomo che porta dentro di sé il peso della storia e della perdita.
“Sandokan” non è solo un ritorno. È un atto d’amore.
Un inno al coraggio di chi combatte per la libertà, ma anche al dolore silenzioso che accompagna ogni rivoluzione personale.
La serie funziona perché non cerca di imitare, ma di ricordare.
Ricordare cosa significa credere in un ideale, in un sogno, in un mare che non smette mai di chiamare.
Alla fine resta negli occhi un’immagine potente:
Sandokan che si volta verso l’orizzonte, la vela che si tende al vento, e un sorriso che non è vittoria, ma consapevolezza.
Come scriveva Salgari: “Il mare non ha padroni, ma ricorda ogni uomo che lo ha sfidato.”
E forse, oggi, in questo nuovo racconto, anche noi possiamo ricordare chi eravamo — e chi sogniamo ancora di essere.