Essere la figlia di una leggenda come George Romero significa portare sulle spalle un’eredità tanto luminosa quanto pesante.
Quando Tina Romero ha deciso di dirigere il suo primo lungometraggio, Queens of the Dead, le aspettative si sono accese immediatamente: uno zombie movie che incontra l’universo queer, ambientato in un night club di New York trasformato in fortino contro l’invasione dei morti viventi. Sulla carta, un concept esplosivo. Sulla pellicola, presentata al ventesimo Festival del Cinema di Roma nella sezione Freestyle, un’occasione mancata che lascia l’amaro in bocca.
Il film ci porta dentro lo Yum, un locale notturno dove le drag queen mettono in scena performance scintillanti tra glitter, paillettes e costumi favolosi. È qui che scoppia l’epidemia zombie, comprimendo l’intera narrazione in poche ore di pura sopravvivenza. L’intuizione iniziale appare brillante: raccontare un movimento attraverso micro esistenze fotografate nella notte di maggiore diffusione del contagio. Un’operazione che avrebbe potuto coniugare la tradizione del cinema di genere con una riflessione politica profonda sul contemporaneo.
Eppure qualcosa si inceppa già dai primi minuti. La gestione di un’opera prima così ambiziosa si rivela troppo complessa, disperdendosi nell’inconsistenza e in scelte di messa in scena poco convincenti. La regista opta per una chiave prevalentemente comica, ma questa scelta stilistica funziona soltanto a tratti, relegando l’horror in un angolo e affidandosi a gag isolate che raramente centrano il bersaglio. Il risultato è un prodotto che oscilla senza trovare mai un equilibrio, incapace di decidere se far ridere o terrorizzare.
A uscirne maggiormente penalizzata è proprio la dimensione politica, elemento che dovrebbe costituire il sottotesto necessario del genere zombie, almeno secondo la lezione paterna. Il film cade in un controsenso fatale: focalizza lo sguardo sulle espressioni personali individuali invece che sul collettivismo, tradendo così l’essenza stessa della comunità queer che vorrebbe celebrare. Un vero peccato, perché gli ingredienti importanti sono tutti presenti nell’estetica della narrazione: il rifiuto delle identità immutabili o naturali, un codice inclusivo contro razzismo, disabilità e classismo.
Avere tra le mani una bomba a orologeria di tale portata avrebbe dovuto evitare la trappola dei soliti cliché. Invece, le tematiche rimangono confinate dentro situazioni schematiche, lasciando evaporare la potenza deflagrante che avrebbero potuto sprigionare. La trama segue l’escalation classica coronata da un lieto fine prevedibile, mentre lo spazio minimal dedicato al musical impedisce una vera progressione narrativa, appiattendo il ritmo in assenza di una reale alternanza tra momenti di tensione e di respiro.
Il lavoro di sottrazione sullo script sostituisce all’ambizione un puro intrattenimento filtrato nello slang del contemporaneo. Alcune battute risultano indubbiamente riuscite, come quella che associa l’eterosessualità al cringe, strappando risate e qualche applauso divertito. Ma sono momenti isolati che non bastano a tenere insieme una struttura narrativa fragile, costruita più su episodi che su una vera architettura drammaturgica.
Resta affascinante, almeno come ipotesi concettuale, il discorso legato al mondo social e alle problematiche sui follower visti come vittime passive degli influencer. Una questione dirimente ma trattata superficialmente, senza il coraggio di approfondire come invece ha fatto Quentin Dupieux nel suo splendido L’accident du piano. Queens of the Dead sfiora temi cruciali senza mai davvero afferrarli, lasciandoli scivolare via come sabbia tra le dita.
Il sospetto che aleggia durante tutta la visione è quello di un’operazione costruita per cavalcare la scia del successo paterno, speculando su un cognome che nel cinema di genere rappresenta un faro. Un’accusa che può sembrare severa, ma che trova conferma in un prodotto che tecnicamente regge, ma artisticamente non decolla. I propositi di appartenenza restano sulla carta, le radici vengono strappate prima ancora di poter attecchire su un concept che avrebbe meritato ben altro trattamento.
Queens of the Dead si configura così come un film tenuto su dai singoli momenti, da qualche inquadratura riuscita, da performance drag che brillano di luce propria nonostante la regia non riesca a valorizzarle pienamente. Una base fluida che non riesce a trasformarsi in fondamenta solide, un’opera prima che non sfigura ma che resta molto al di sotto delle potenzialità insite nel materiale di partenza. Tina Romero dovrà ancora dimostrare di poter uscire dall’ombra del padre, costruendo una propria identità autoriale capace di onorare quell’eredità senza limitarsi a citarla.