C’è un cartello all’inizio di Gli occhi degli altri che normalmente si trova alla fine dei film: quello che avverte lo spettatore che la storia è liberamente ispirata a fatti realmente accaduti.

Andrea De Sica lo mette in testa al suo nuovo lavoro non per mettere le mani avanti, ma per dire qualcosa di più sottile, di più urgente. Perché questo film, che parte dal celebre delitto Casati-Stampa degli anni Sessanta, non vuole semplicemente ricostruire un fatto di cronaca nera. Vuole scavare negli aspetti più oscuri del maschile, nell’idea malata di possesso, nella tragicità di tutti i femminicidi. E lo fa con un coraggio che nel cinema italiano contemporaneo è merce rara.

Il marchese Lelio e sua moglie Elena ricalcano abbastanza fedelmente le figure del vero marchese Camillo Casati-Stampa e di Anna Fallarino. Ma De Sica non si limita alla cronaca: con questa storia parla di qualcosa di molto più ampio. Racconta i rapporti tra le classi sociali, quelli tra uomini e donne nella gestione del desiderio, tocca il tema dell’ossessione e della violenza che si nasconde dietro l’idea assurda di possesso. Le analogie con i fatti reali sono evidenti, dal modo in cui i protagonisti vivono la loro dimensione erotica fino a come si arriva al delitto, ma il film trascende il singolo episodio per diventare riflessione universale.

Il regista non ha paura di mettere sullo schermo gli aspetti più scabrosi della relazione. Il marchese ha il kink di quello che oggi si chiama cuckholdismo: ama filmare la bella moglie mentre fa sesso con giovani trovati per caso e poi pure pagati per il disturbo. De Sica lo racconta senza alcuna pruderie, semmai con una felice vena feticista per l’immagine che caratterizza tutto il film. Perché Gli occhi degli altri è tanto un film di personaggi quanto di immagini: forti, studiate, eleganti, stilizzate. E il fatto che oggi ci sia qualcuno in Italia che pensa al cinema partendo da una forma, facendo della forma qualcosa di centrale anche dal punto di vista narrativo, è da salutare con entusiasmo.

Quel che all’inizio appare come una forma di edonismo amorale di stampo dannunziano, chiaramente tardo fascista (“Il marchese è il nostro duce”, dice uno degli ospiti della coppia durante una battuta di caccia, prima che la marchesa spunti da un cespuglio coperta a malapena da un abitino di rete), si trasforma progressivamente in qualcosa di più profondo e inquietante. De Sica esplora come i rapporti di forza e di potere possano entrare a corrodere e a distruggere le traiettorie del desiderio come quelle dell’amore, trasformandolo in un’ossessione irrazionale che lascia il campo libero alle pulsioni più becere del maschile.

Anche di quel maschile che si piccava di impeccabili buone maniere, di un senso della morale tutt’altro che puritano, di un liberalismo sentimental-erotico che è solo di facciata. In tutto questo, il regista riesce a raccontare il suo marchese non come “un mostro”, ma come un uomo che, smantellato dal suo dolore, si aggrappa all’unica forma espressiva che conosce: quella della violenza. Senza che questo gli fornisca alibi alcuno, anzi. Per il nostro disgusto.

Jasmine Trinca si mostra con coraggio straordinario ed è ben attenta a non esagerare nei toni drammatici. Interpreta Elena con una sensualità che non è mai gratuita, con una disinibizione che racconta una donna libera intrappolata in un sistema di potere che la vuole oggetto. Filippo Timi, dal canto suo, è una maschera inquietante per tutto il film. Quando racconta nella sua fissità un sadismo altezzoso e sprezzante come quando viene impercettibilmente deformato dall’ossessione e dall’impotenza, l’attore offre una prova magistrale, capace di rendere visibile la trasformazione interiore del personaggio attraverso minimi spostamenti di sguardo, postura, tono.

I corpi e i volti dei protagonisti sono trattati da De Sica con la stessa foga visiva che applica ai luoghi, alle armi, agli animali vivi e impagliati, alla ricostruzione attenta e precisa di un decennio, gli anni Sessanta, nel quale la società italiana stava subendo spinte trasformative quasi ingovernabili. Anche quella società “alta” raccontata in questo film, quella che credeva di poter vivere al di sopra delle regole morali comuni, scopre che le sue fondamenta sono marce, che dietro l’eleganza si nasconde la violenza.

Splendidamente fotografato da Gogò Bianchi, Gli occhi degli altri è un melodramma tragico, perverso e visionario. È il film coraggioso di un regista che non ha timore di sfidare né le convenzioni né i finti pudori del nostro cinema, che ha voglia di esplodere il racconto in lampi barocchi, parole essenziali, vibrazioni sensuali. De Sica costruisce un’opera che dialoga con il presente attraverso il passato, che usa il delitto Casati-Stampa come chiave per parlare di tutti quei delitti dove l’amore si trasforma in possesso e il possesso in annientamento.

Il film presentato al Festival di Roma ha ricevuto recensioni positive proprio per questa capacità di coniugare forma e contenuto, di essere tanto un’opera visivamente potente quanto narrativamente rilevante. In un panorama cinematografico italiano spesso timido nelle sue scelte stilistiche e tematiche, Gli occhi degli altri si impone come un’eccezione necessaria, un lavoro che dimostra come si possa fare cinema d’autore senza rinunciare alla forza delle immagini e alla profondità della riflessione. Un melodramma algido e sensuale allo stesso tempo, capace di far vibrare lo schermo di passione controllata e di disgusto lucido verso quella violenza maschile che, dalla cronaca nera degli anni Sessanta a quella di oggi, continua a mietere vittime.

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