Quaranta secondi. Il tempo di un respiro trattenuto, di uno sguardo rubato, di una canzone che inizia appena a entrare nella testa.

Quaranta secondi bastarono nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 a Colleferro, in provincia di Roma, per spezzare la vita di Willy Monteiro Duarte, ventun anni, pestato a morte mentre tentava di difendere un amico durante una rissa. Un gesto di coraggio brutalmente punito da quattro ragazzi che trasformarono una serata qualunque in un incubo collettivo, uno di quei fatti di cronaca che lacerano il tessuto sociale e obbligano a interrogarsi su cosa sia andato storto.

Vincenzo Alfieri prende quel numero atroce, quei 40 secondi che danno il titolo al film, e lo dilata in un racconto che abbraccia le ventiquattro ore precedenti all’omicidio. L’adattamento del libro di Federica Angeli “40 secondi. Willy Monteiro Duarte. La luce del coraggio e il buio della violenza” diventa così un’immersione nei destini incrociati di vittime e carnefici, un affresco amaro della provincia romana dove tensioni silenti e relazioni tossiche covano sotto la superficie di una giornata apparentemente normale.

Il film esplora la vicenda da ogni angolazione possibile, seguendo non solo Willy e i suoi assassini, ma anche le vite che ruotavano attorno a loro. I quattro colpevoli – i gemelli Gabriele e Marco Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, qui rinominati per scelta narrativa – vengono ritratti nel loro habitat naturale, in quel substrato sociale fatto di palestre ossessive, atteggiamenti prevaricatori e vuoti esistenziali riempiti con la violenza. Tra loro spicca la performance di Francesco Gheghi, già protagonista di “Familia”, che interpreta Maurizio, alter ego di Francesco Belleggia: un personaggio apparentemente timido e innocuo che nasconde abissi inquietanti.

La scelta stilistica di Alfieri, che firma anche sceneggiatura e montaggio insieme a Giuseppe G. Stasi, è quella di una macchina da presa costantemente appiccicata ai volti dei personaggi. Primi e primissimi piani deformano le espressioni, accentuando da un lato il sorriso caloroso e l’umanità di Willy – interpretato con credibilità disarmante da Justin De Vito al suo debutto cinematografico – dall’altro la crudezza e la violenza negli sguardi degli assassini. È una scelta che vuole immergere lo spettatore nel disagio, togliergli l’aria, impedirgli di guardare altrove.

Ma questa vicinanza claustrofobica, per quanto efficace nell’intento, finisce per risultare eccessiva. Lo stile diventa “urlato”, esasperato fino al punto di snaturare alcuni momenti che avrebbero potuto reggere anche il silenzio, la sottrazione, il non detto. Anche la recitazione, specie nelle scene più concitate, risente di questa impostazione e perde parte della potenza drammatica che la vicenda stessa porta con sé. Come se la tragedia vera, quella che tutti conosciamo dai telegiornali, non bastasse da sola a colpire.

Il gioco a incastri della narrazione, che segue storyline parallele nelle ore precedenti il delitto, funziona con risultati alterni. Alcune linee narrative si rivelano meno incisive di altre, sottraendo tempo e respiro a quelle che avrebbero meritato maggiore approfondimento. Eppure, il film riesce nel suo intento più ambizioso: generare quella frustrazione e amarezza che nasce dal vedere come una giornata normalissima possa nascondere una polveriera pronta a esplodere, e come a pagarne il prezzo sia stato proprio chi stava vivendo forse il momento migliore della sua esistenza.

Nel cast figurano anche Enrico Borelli e Francesco Di Leva, che Gheghi aveva già incrociato in “Familia”, confermando una generazione di attori capaci di confrontarsi con le zone più oscure della cronaca italiana. Ma in “40 secondi” non c’è empatia per nessuno, se non per Willy e la sua famiglia. E questa è, probabilmente, la scelta più onesta che un film del genere potesse fare.

Presentato alla Rome Film Fest 2020 nella sezione Progressive Cinema, “40 secondi” è un ritratto brutale e necessario di una provincia italiana dove la violenza non è un’eccezione ma una possibilità sempre presente, nascosta dietro la facciata della quotidianità. Un film che ricorda, con la forza del cinema civile, che dietro ogni fatto di cronaca ci sono vite spezzate e domande senza risposta. E che quaranta secondi possono essere un’eternità quando contengono tutto l’orrore di cui l’essere umano è capace.

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