C’è qualcosa di coraggiosamente testardo nel franchise di Tron.
Dal 1982, quando Steven Lisberger lanciò gli spettatori dentro paesaggi software luminescenti con una delle prime applicazioni estensive della CGI, fino al 2010 con Tron: Legacy di Joseph Kosinski e le sue sperimentazioni pioneristiche nel de-aging, la saga ha sempre rappresentato una scommessa tecnologica ed estetica. Ora, nel 2025, Disney rilancia i dadi con Tron: Ares, affidando le redini al regista norvegese Joachim Rønning, specialista di sequel blockbuster per lo studio dopo Pirati dei Caraibi: La vendetta di Salazar e Maleficent: Signora del male. Ma questa volta la scommessa è diversa: non si tratta solo di tecnologia all’avanguardia, ma di far finalmente decollare commercialmente e criticamente un universo che non ha mai del tutto conquistato il grande pubblico.
Il risultato? Un film che è indubbiamente bello da vedere e da ascoltare, ma che sacrifica profondità narrativa sull’altare dello spettacolo visivo. Un videogioco magnificamente renderizzato che dimentica di costruire personaggi tridimensionali.
Tron: Ares si apre con un prologo pixelato che ci aggiorna sui quindici anni trascorsi da Legacy, chiarendo immediatamente che Sam Flynn di Garrett Hedlund non tornerà. Una scelta narrativa che pesa, così come l’assenza di Bruce Boxleitner, rendendo questo il primo film della saga senza un vero Tron. Nel vuoto lasciato da Sam, il mondo reale è diventato teatro di una corsa agli armamenti digitali tra due colossi: ENCOM, la corporation del film originale, ora guidata dalla superstar del game design Eve Kim interpretata da Greta Lee, e la nuova arrivata Dillinger Systems, capitanata dal viscido Julian Dillinger di Evan Peters, nipote del David Warner originale. Julian, con i suoi inquietanti tatuaggi a circuito stampato, è il classico villain tech-bro disposto a tutto, persino a mettere da parte la madre Elisabeth, una glaciale Gillian Anderson che porta sullo schermo un’aura quasi thatcheriana.
La posta in gioco? La creazione di intelligenze artificiali che possano materializzarsi nel mondo reale attraverso stampanti 3D avanzate. L’unico ostacolo è un MacGuffin algoritmico chiamato “codice di permanenza”, che solo Eve è riuscita a rintracciare nel vecchio server di Kevin Flynn. “Chi controlla il codice di permanenza, controlla il futuro”, intona Julian con gravitas degna di Dune. E qui entra in scena Ares, il programma AI sofisticato interpretato da Jared Leto, destinato a essere portato nel mondo reale e a innescare una battaglia mortale sul futuro della tecnologia.
C’era spazio, qui, per una riflessione intelligente sul dominio dei tech bros e sull’ascesa dell’intelligenza artificiale. The Social Network con i laser, se vogliamo. Invece, Tron: Ares opta per una narrazione leggera, una sequenza frenetica di pericoli uno dietro l’altro, condita da dialoghi che fanno venire i brividi per le ragioni sbagliate: “Preparate il laser a particelle!” La caratterizzazione è bidimensionale quanto i pixel del prologo, e i temi narrativi hanno la profondità di, appunto, un floppy disk. Non aspettatevi meditazioni profonde sulla condizione umana. “Essere umani è difficile”, osserva saggiamente un personaggio, come se fosse una rivelazione.
Il tallone d’Achille del film è proprio Jared Leto nei panni di Ares. Come tante intelligenze artificiali cinematografiche prima di lui, deve imparare a capire perché piangiamo, ma il copione gli consegna un personaggio vuoto, un involucro a cui viene appiccicata in modo poco convincente una goffa passione per il kitsch anni Ottanta e i Depeche Mode. È un’incarnazione dell’AI che non convince mai, né emotivamente né narrativamente.
Eppure, alcuni elementi salvano questo file di dati dalla corruzione totale. Greta Lee, al suo debutto blockbuster dopo aver spezzato i cuori del pubblico in Past Lives, è una protagonista piacevolmente con i piedi per terra. Il suo sussurrare “Oh mio Dio” quando entra per la prima volta nel Grid cattura perfettamente la giusta dose di meraviglia e assurdità della situazione. Jodie Turner-Smith, invece, è deliziosamente non-umana come il programma Athena, terrificante nella sua compostezza dietro occhi fumosi. Ma i veri MVP del film non sono sullo schermo.
Sono i Nine Inch Nails. Trent Reznor e Atticus Ross hanno creato una colonna sonora che domina letteralmente ogni singola scena, elevando il materiale in modo tanto significativo quanto impressionante. Non succedeva dall’ultimo film di Tron, quando Daft Punk aveva magistralmente fuso orchestrazioni epiche e bleeps elettronici. La soundtrack dei NIN è alternativamente scintillante e intrigante, poi industriale fino a far vibrare le ossa. Tech-noir filtrato attraverso un grimy club berlinese, è un album che merita una rotazione molto più regolare del film stesso. Non un secondo di orchestra, solo precisione e disagio elettronico, come hanno promesso i musicisti stessi.
Questa potenza sonora, abbinata a una CGI splendidamente renderizzata e a un’art direction elegante, crea l’effetto di un videoclip di due ore incredibilmente lucido e bellissimo, ma sostanzialmente superficiale. Vi ritroverete a fare “ooh” e “aah” davanti alle nuove cose a cui hanno aggiunto i nastri luminosi: tute alari, carri armati, sottomarini, spade. È come agitare delle chiavi davanti a un bambino. E sapete cosa? A volte, un venerdì sera al cinema, è proprio tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Tron: Ares non reinventa la ruota, né il disco di memoria. Non offre la profondità filosofica che la premessa permetterebbe, né personaggi memorabili quanto la sua estetica. Ma se accettate di immergervi in questo bagno sensoriale, in questo trionfo del design visivo e soprattutto sonoro, troverete un intrattenimento futuristico che fa il suo lavoro. È bio-digital jazz, man, come direbbe Kevin Flynn. Jazz che suona magnificamente, anche se la melodia di fondo è piuttosto semplice.
Il film di Joachim Rønning è la prova che a volte lo stile può prevalere sulla sostanza, almeno per la durata di una proiezione. È un gamble che paga parzialmente: non conquisterà necessariamente i detrattori della saga, ma regalerà ai fan del Grid un ritorno visivamente appagante in quel mondo di neon e geometrie impossibili. Con un po’ più di coraggio narrativo e una sceneggiatura meno convenzionale, questo terzo capitolo avrebbe potuto essere il game changer che il franchise meritava. Invece, resta un’esperienza piacevolmente dimenticabile, salvata dall’eccellenza tecnica e da una delle migliori colonne sonore degli ultimi anni.