Cosa succederebbe se la tua professione fosse fingere di essere qualcun altro?
Non un attore sul palcoscenico, ma qualcuno che affitta la propria presenza, la propria compagnia, persino la propria capacità di litigare su richiesta. È questo il mondo di Matthias, protagonista di Peacock, l’opera prima del regista e sceneggiatore austriaco Bernhard Wenger che sta facendo parlare di sé nei circuiti internazionali del cinema d’autore.
Il film, interpretato con intensità contenuta da Albrecht Schuch, segna il debutto di Wenger con una visione tanto originale quanto disturbante della società contemporanea. Matthias lavora per MyCompanion, un’agenzia che offre servizi di “affitto umano”: puoi noleggiare un amico per una serata, un partner per un evento sociale, un membro della famiglia per una cena imbarazzante, persino qualcuno con cui discutere animatamente se ne senti il bisogno. Tutto sembra funzionare perfettamente nella vita professionale di Matthias, finché la sua compagna di lunga data non lo lascia con una domanda che diventa il cuore pulsante dell’intero film: “Non so più chi sei davvero. Forse quella versione di te non esiste nemmeno più”.
Questa frattura innesca una crisi esistenziale che Wenger orchestra con precisione chirurgica. Il protagonista continua a svolgere il suo lavoro, ma ogni incarico diventa un tassello di un puzzle identitario sempre più frammentato. Chi è Matthias quando non recita un ruolo per qualcun altro? Esiste ancora un nucleo autentico sotto gli strati di personalità prese in prestito? Il regista austriaco non offre risposte facili, preferendo accompagnare lo spettatore in una discesa sempre più vertiginosa nel tumulto interiore del personaggio.
Dal punto di vista stilistico, Peacock si colloca in una tradizione cinematografica europea ben definita. Le composizioni sono piatte e mordaci, il senso dell’umorismo è asciutto, deadpan, intriso di quella qualità che solo il cinema nordeuropeo sa restituire. È impossibile non pensare ai maestri del genere: Aki Kaurismäki con le sue storie di solitudini metropolitane, Roy Andersson con i suoi tableaux vivants grotteschi, e più recentemente Ruben Östlund con la sua dissecazione spietata delle convenzioni sociali. Eppure Wenger riesce a distinguersi, evitando con cura la sentimentalità che a volte affligge questo tipo di narrazioni.
Ciò che rende Peacock particolarmente penetrante è un senso di ansia genuina che pervade ogni fotogramma, più pronunciato rispetto ai lavori di Östlund. Non si tratta solo di una satira sociale o di un esercizio di stile: c’è qualcosa di profondamente inquietante nella premessa, qualcosa che tocca corde universali nell’era dei social media e dell’identità digitale frammentata.
Non è un caso che l’ispirazione per il film sia venuta a Wenger dalla lettura di un articolo sul New Yorker che documentava l’esistenza reale di queste agenzie in Giappone. Il regista ha dichiarato che molte delle storie che ha scoperto erano talmente assurde da non poter essere inserite nel film senza rischiare l’inverosimiglianza. “Ho dovuto attenuare tutto”, ha spiegato in un’intervista all’Hollywood Reporter. “Alcune delle missioni che vediamo nel film sono successe esattamente come mostrate. Altre sarebbero state troppo”.
Ma Peacock funziona anche come metafora della nostra epoca digitale. I social media ci hanno abituati a mostrare solo le versioni migliori di noi stessi, costrutti accuratamente curati che possono essere in totale contraddizione con chi siamo realmente. Matthias diventa così l’incarnazione estrema di questa scissione: un uomo che ha trasformato la performance identitaria in professione, fino a perdere il contatto con qualsiasi versione autentica di sé.
L’umorismo flemmatico del film offre momenti di sollievo necessari, ma è quello che Wenger stesso ha definito “il senso austriaco della tragedia” a lasciare il segno più profondo. Con una durata di 102 minuti, il film non spreca un fotogramma, costruendo progressivamente un ritratto che è al tempo stesso specifico e universale, individuale e collettivo.
Peacock è attualmente in programmazione al Siskel Film Center di Chicago, un riconoscimento importante per un’opera prima che dimostra come il cinema europeo contemporaneo continui a interrogare con lucidità e coraggio le contraddizioni della nostra epoca. Bernhard Wenger si presenta sulla scena internazionale con una voce distintiva e una visione matura, capace di bilanciare l’assurdo e il tragico senza mai perdere di vista l’umanità dei suoi personaggi. La domanda che il film lascia sospesa è semplice quanto devastante: quando smettiamo di recitare, rimane ancora qualcosa di noi?