Ci sono film che ti inchiodano alla poltrona con la forza di una morsa invisibile, e Il cliente è uno di quelli.
Tratto dal romanzo di John Grisham e diretto da Joel Schumacher nel 1994, questo thriller legale intreccia innocenza infantile e corruzione criminale in una danza ad alta tensione che non concede respiro fino ai titoli di coda. Al centro della storia c’è Mark Sway, un ragazzino di undici anni interpretato dal giovane Brad Renfro, che si ritrova casualmente testimone del suicidio di Jerome Clifford, un avvocato invischiato fino al collo con la mafia.
Ma non è solo un suicidio qualunque. Clifford custodiva un segreto che vale più di mille vite: il luogo esatto in cui è sepolto il cadavere del senatore Boyette, assassinato dal criminale Barry “La Lama” Muldano. In quel momento, Mark passa dall’essere un ragazzino qualunque a diventare l’uomo più pericoloso d’America, nel mirino sia del procuratore federale Roy Foltrigg che degli spietati boss mafiosi. Per proteggersi dalle pressioni della giustizia e dalle minacce della criminalità organizzata, il piccolo Mark decide di fare una mossa inaspettata: ingaggiare un avvocato tutto suo.
Ed è qui che entra in scena Susan Sarandon, nel ruolo di Reggie Love, un’avvocatessa con un passato segnato da problemi di alcolismo che nella difesa di questo ragazzino crapone trova un inaspettato motivo di riscatto personale. La chimica tra i due personaggi è il cuore pulsante del film: da un lato un bambino costretto a crescere troppo in fretta, dall’altro una donna che nella sua battaglia legale ritrova la propria umanità. Sarandon, che l’anno successivo avrebbe vinto l’Oscar come migliore attrice per Il miglio verde, regala qui una performance intensa e misurata, capace di alternare fragilità e determinazione.
Il finale del film è un crescendo di suspense degno delle migliori pagine di Grisham. Mark e Reggie decidono di agire: si recano di nascosto nella proprietà di Clifford per verificare personalmente se il cadavere del senatore è davvero sepolto lì. Ma non sono i soli ad avere quella stessa idea. Nello stesso momento, Barry Muldano e i suoi scagnozzi stanno tentando di spostare il corpo per ordine dei vertici mafiosi, ormai preoccupati che il segreto possa venire a galla. Lo scontro diventa inevitabile: i due vengono scoperti, ma grazie all’astuzia di Reggie e all’attivazione provvidenziale dell’allarme dei vicini riescono a salvarsi per un soffio, mentre i mafiosi fuggono a mani vuote.
Con la prova definitiva finalmente in mano, Reggie può finalmente negoziare da una posizione di forza. Il procuratore Foltrigg, interpretato da Tommy Lee Jones in una delle sue iconiche performance da uomo di legge ambizioso, vuole disperatamente quella informazione per il clamore mediatico che gli garantirebbe e per lanciare la sua futura carriera politica. Reggie, però, non è disposta a cedere senza garanzie concrete: pretende cure mediche specializzate per Ricky, il fratellino di Mark traumatizzato dagli eventi, e soprattutto l’inserimento dell’intera famiglia Sway nel programma di protezione testimoni. Foltrigg accetta, Mark rivela dove si trova il cadavere, e la macchina della giustizia può finalmente mettersi in moto.
Il film si chiude su due binari paralleli che scorrono verso destini opposti. Da un lato c’è il commovente addio tra Mark e Reggie, due anime che hanno condiviso un’esperienza limite e che hanno imparato a fidarsi l’una dell’altra in un mondo dove la fiducia è merce rara. Dall’altro c’è il destino ineluttabile di Barry Muldano: il suo fallimento nel recuperare il cadavere lo rende inviso persino ai vertici della mafia, che ne decretano la condanna a morte. Foltrigg, soddisfatto per il recupero del corpo e per il trionfo mediatico che ne deriva, tenta persino di reclutare Reggie nel suo staff, ma lei rifiuta con orgoglio, scegliendo la propria indipendenza professionale e morale.
La famiglia Sway, invece, si prepara a ricominciare altrove, con nuove identità e la speranza di una vita finalmente normale. È un finale agrodolce, che lascia un retrogusto di malinconia ma anche di speranza: Mark ha perso la sua infanzia, ma ha guadagnato la possibilità di un futuro. E Reggie, nella battaglia per salvare quel ragazzino, ha salvato anche se stessa.
Il cliente funziona perfettamente perché combina due elementi raramente equilibrati così bene: la tensione del thriller procedurale e la profondità emotiva del dramma umano. John Grisham, maestro indiscusso del legal thriller, ha creato una storia che gira come un orologio svizzero, e Joel Schumacher l’ha tradotta in immagini con il ritmo serrato di chi sa esattamente quando accelerare e quando concedere una pausa per far respirare i personaggi. Non a caso, il successo del film fu tale che poco tempo dopo ispirò persino un’azzeccata serie televisiva.
Ma al di là della trama, ciò che rende Il cliente memorabile sono i suoi due eroi singolari: un ragazzino che dimostra più coraggio di molti adulti e un’avvocatessa con cicatrici invisibili che trova redenzione nella difesa dell’innocenza. Susan Sarandon e Brad Renfro creano una coppia improbabile ma perfettamente calibrata, capace di sostenere l’intero peso emotivo del film sulle loro spalle. È un equilibrio delicato tra vulnerabilità e forza, tra paura e determinazione, che trasforma una storia di mafia e corruzione in qualcosa di profondamente umano.
Ripensare a Il cliente oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla sua uscita, significa riscoprire un cinema capace di intrattenere senza rinunciare alla sostanza, di emozionare senza cadere nel sentimentalismo, di raccontare la corruzione del sistema senza perdere di vista l’importanza dei singoli gesti di coraggio. È il cinema che funziona, che lascia il segno, che ti accompagna anche dopo che le luci si sono riaccese. E che dimostra, ancora una volta, che i romanzi di John Grisham funzionano tutti sullo schermo, soprattutto quando nelle mani giuste trovano interpreti all’altezza della sfida.