Quando Derek Kolstad, il visionario dietro il franchise di John Wick, ha accettato di creare una serie animata basata su Splinter Cell, non si è limitato a tradurre il videogioco sullo schermo.
Ha fatto qualcosa di più audace: ha preso il DNA di un capolavoro western di trentatré anni fa e lo ha impiantato nel cuore di una spy story moderna. La serie Netflix Splinter Cell: Deathwatch, in arrivo il 14 ottobre 2025 con tutti gli episodi disponibili da subito, non è solo un adattamento videoludico. È, nelle parole dello stesso Kolstad, il suo Unforgiven personale.
Il parallelo con il film del 1992 diretto e interpretato da Clint Eastwood non è casuale né superficiale. Unforgiven, pietra miliare del cinema western preservata nel National Film Registry della Library of Congress, raccontava la storia di William Munny, un pistolero invecchiato e disilluso che accetta un ultimo lavoro. Splinter Cell: Deathwatch segue Sam Fisher, doppiato da Liev Schreiber, in una narrativa sorprendentemente speculare: un agente leggendario tirato fuori dalla pensione per un’ultima missione, mentre addestra una nuova recluta.
In un’intervista esclusiva, Kolstad ha svelato le radici profonde di questa connessione cinematografica. Il creatore ha spiegato come, quando Netflix gli ha proposto il progetto animato, abbia immediatamente pensato a quegli eroi stanchi e consumati dalla vita che hanno popolato l’età dell’oro del cinema americano. Non solo Eastwood in Unforgiven, ma anche Spencer Tracy in Bad Day at Black Rock e Lee Marvin in Point Blank. Figure di uomini che hanno vissuto troppo, visto troppo, sopravvissuto a troppo.
Ma ciò che rende Sam Fisher diverso da un semplice clone di questi archetipi è la sua accettazione. Come ha sottolineato Kolstad, Fisher non è un alcolizzato che si lamenta della sua fattoria sperduta nel nulla. Ha vissuto la sua vita, probabilmente in pace, dopo essere stato “la punta della lancia” per anni. Quando viene richiamato in servizio attraverso quella che apparentemente sembra una semi-coincidenza, non combatte contro il destino né lo abbraccia completamente. Semplicemente accetta: “Bene, questo è il capitolo che stiamo vivendo”.
Questa filosofia esistenziale risuona con un’autenticità quasi rurale. Kolstad, proveniente da una famiglia di agricoltori del Wisconsin, paragona Fisher a suo zio settantenne che ancora lavora la terra. L’approccio è lo stesso: “Ho coltivato in modo diverso cinquant’anni fa, ma ho sempre coltivato”. È questa resilienza silenziosa, questa continuità attraverso il cambiamento, che definisce il protagonista di Deathwatch e lo distingue da altri eroi invecchiati del panorama contemporaneo.
L’ispirazione da Unforgiven permea la struttura narrativa di Splinter Cell: Deathwatch a livelli multipli. Entrambe le storie esplorano il peso morale delle azioni passate, la difficoltà di sfuggire alla propria natura e il costo personale della violenza. Ma mentre il film di Eastwood si muoveva attraverso le praterie polverose del vecchio West, la serie Netflix trasla questi temi universali nel mondo dell’spionaggio moderno, mantenendo intatta la tensione esistenziale che rende queste narrazioni così potenti.
La scelta di realizzare Deathwatch come serie animata apre possibilità visive che un live-action difficilmente potrebbe eguagliare. Il formato permette di esplorare la mitologia di Splinter Cell con una libertà creativa totale, rendendo omaggio al materiale di partenza mentre si costruisce qualcosa di genuinamente nuovo. Sam Fisher qui non è semplicemente il protagonista di una franchigia videoludica in cerca di adattamento: è un personaggio complesso che porta sulle spalle decenni di segreti, tradimenti e sopravvivenza.
Accanto a Schreiber, il cast vocale include Kirby Howell-Baptiste nel ruolo di Zinnia McKenna, la nuova operativa che Fisher si trova ad addestrare. Questa dinamica maestro-allievo aggiunge un ulteriore strato alla narrazione, creando un ponte generazionale che riflette il passaggio di testimone tra vecchie e nuove metodologie, tra esperienza vissuta e freschezza d’approccio.
Ciò che emerge dalle dichiarazioni di Kolstad è una visione chiara: Splinter Cell: Deathwatch non vuole essere un semplice prodotto derivato da un videogioco di successo. Vuole essere una meditazione sul tempo, sulla violenza, sulla redenzione e sull’impossibilità di sfuggire completamente a ciò che siamo stati. Temi che Eastwood ha esplorato magistralmente nel 1992 e che ora trovano nuova vita in un contesto completamente diverso ma emotivamente equivalente.
L’approccio di Kolstad dimostra come l’adattamento più riuscito non sia quello che replica pedissequamente la fonte originale, ma quello che comprende l’essenza emotiva di un personaggio e la traduce in un linguaggio narrativo universale. Sam Fisher, attraverso il filtro di Unforgiven e dei classici dell’età dell’oro hollywoodiana, diventa qualcosa di più di un agente segreto con occhiali notturni: diventa un simbolo della persistenza umana di fronte all’inevitabilità del cambiamento.
Con il debutto fissato per il 14 ottobre su Netflix, Splinter Cell: Deathwatch si prepara a dimostrare che i migliori adattamenti non nascono dalla fedeltà cieca al materiale di partenza, ma dalla capacità di riconoscere le risonanze universali che collegano storie apparentemente distanti. Un western del 1992 e una spy story animata del 2025 non sono poi così diversi, quando entrambi parlano dello stesso mistero fondamentale: cosa rimane di un uomo quando tutto ciò che ha fatto viene messo alla prova del tempo.