C’è un equivoco che attraversa decenni di critica cinematografica, un’idea talmente radicata da sembrare inattaccabile: l’autore come origine assoluta dell’opera.

Quello sguardo demiurgico che plasma la materia filmica, che viene prima di tutto, che genera mondi. Ma se vi dicessimo che questa prospettiva va rovesciata come un calzino? Che l’autore, in realtà, viene dopo?

Non si tratta di una provocazione fine a se stessa, ma di una rivoluzione concettuale che ridefinisce il nostro modo di guardare al cinema. L’autore non è mai stato l’istanza generativa ideale che precede l’opera, quella sorta di dio creatore che insuffla vita nelle immagini. È l’opera stessa, nella sua effettività concreta, a generare l’autore. Prima viene il film, poi viene chi lo firma.

Questo ribaltamento ha conseguenze profonde. L’autore emerge dallo sguardo critico che lo ritaglia dall’insieme delle competenze collettive che danno vita a un’opera cinematografica. Perché un film non è mai il prodotto di una sola mente, ma il risultato di una complessa orchestra di talenti: direttori della fotografia, montatori, scenografi, attori. In alcuni casi, l’autorialità può addirittura spostarsi verso l’interprete. Pensate ai film di Totò: chi è davvero l’autore di quelle opere? Il regista alla macchina da presa o il genio comico che con la sua presenza trasforma ogni scena?

L’autore diventa così un principio di determinazione critica, uno strumento che permette di istituire una schematizzazione estetica della singolarità dei film. Ma questo è possibile solo quando i tratti che definiscono le opere sono simultaneamente identificabili e originali. Solo quando riusciamo a riconoscere un’impronta unica, una firma visibile.

Questi tratti possono manifestarsi su diversi livelli. A volte sono stilistici, quando i film rielaborano formanti più generali. La grande tradizione hollywoodiana ne è la prova lampante: pensiamo al celebre Lubitsch Touch, quella combinazione inconfondibile di eleganza visiva, ironia sofisticata e umanità che Ernst Lubitsch sapeva imprimere alle sue commedie. Non era un’essenza pre-esistente, ma qualcosa che emergeva dall’accumulo di scelte estetiche riconoscibili film dopo film.

In altri casi, i nomi propri dei registi identificano veri e propri mondi autoriali complessivi. Quando parliamo di autore in questo senso profondo, significa poter usare il nome proprio in senso aggettivale. Felliniano non descrive semplicemente un film diretto da Federico Fellini, ma evoca un universo onirico popolato di personaggi grotteschi e memorie nostalgiche. Wellesiano richiama abissi di profondità di campo e audacie narrative che sfidano le convenzioni.

E così Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Marco Bellocchio, Sofia Coppola, Alice Rohrwacher, Jafar Panahi, James Cameron, Clint Eastwood, Jia Zhangke: ciascuno di questi nomi è diventato aggettivo, mondo, linguaggio. Ma lo sono diventati dopo, attraverso l’accumulo di opere che hanno permesso alla critica e al pubblico di ritagliare una coerenza, di identificare una voce.

Questa prospettiva non sminuisce il valore creativo dei registi, ma lo colloca nella sua giusta dimensione. L’autore non è un’entità metafisica che precede il film, ma una funzione critica che emerge dalla materialità delle opere. È il cinema stesso a creare i suoi autori, non il contrario. E in questo rovesciamento c’è tutta la verità di un’arte collettiva che continua a fingersi individuale.

Cosa resta dell’autore, allora? Resta tutto, ma in una luce diversa. Resta la possibilità di riconoscere una singolarità estetica, di tracciare genealogie e influenze, di celebrare visioni uniche. Ma con la consapevolezza che quella singolarità non è un punto di partenza assoluto, bensì il precipitato di un processo complesso. L’autore è una costruzione a posteriori, non un’origine primigenia. E questa verità, lungi dal diminuire la magia del cinema, la rende ancora più affascinante.

Lascia un commento