Quando Harrison Ford indossò per la prima volta il fedora e impugnò la frusta in “I predatori dell’arca perduta” nel 1981, nessuno immaginava che dietro quella figura carismatica si nascondesse un’idea completamente diversa.

L’Indiana Jones che tutti amiamo, con il suo fascino da professore avventuriero e la sua capacità di cavarsela per puro miracolo, avrebbe potuto essere qualcosa di radicalmente opposto: un playboy ricco che trascorreva le notti nei club più esclusivi, circondato da bionde statuarie in stile anni Trenta.

La genesi di Indiana Jones risale al 1973, quando George Lucas concepì il personaggio nella sua :ente mentre era impegnato con un piccolo progetto chiamato “Star Wars”. Lucas voleva reinventare i serial d’avventura della RKO che aveva adorato da bambino, ma la sua visione originale del Dottor Henry Jones Jr. era molto più vicina a James Bond che all’archeologo sgangherato che conosciamo. Il creatore di “Guerre stellari” immaginava un professore universitario che di giorno insegnava e di notte si trasformava in un frequentatore di nightclub, con donne affascinanti ad ogni braccio.

Fu Philip Kaufman, amico di lunga data di Lucas e regista di opere come “L’invasione degli ultracorpi” del 1978 e “I guerrieri della notte”, a salvare il personaggio da questa deriva eccessivamente promiscua. Durante tre settimane cruciali nel 1975, Kaufman incontrò Lucas e rimodellò profondamente il concept originale. Non solo suggerì l’Arca dell’Alleanza come MacGuffin del film, ma intervenne drasticamente per ridimensionare gli aspetti da dongiovanni del personaggio, trasformandolo in qualcosa di più equilibrato e credibile.

L’influenza di James Bond su Indiana Jones è innegabile e Spielberg non l’ha mai nascosta. Il regista, che aveva già inserito un easter egg di 007 in “Lo squalo”, ha sempre considerato i film di Indy come il suo personale omaggio alla spia britannica. In “Indiana Jones e il tempio maledetto” del 1984, c’è persino un tributo diretto a “Goldfinger”: Harrison Ford indossa lo stesso smoking color crema con un fiore rosso all’occhiello che Sean Connery sfoggiava nel terzo film di Bond. La sequenza al Club Obi-Wan di Shanghai, con Indy accompagnato da Willie Scott, rappresenta paradossalmente l’eco più vicina alla visione originale di Lucas: un avventuriero elegante in smoking che frequenta locali notturni con donne attraenti al seguito.

Ma quella scena rimase un’eccezione, non la norma. Secondo quanto riportato da Richard Schickel nella sua recensione di “I predatori dell’arca perduta” pubblicata su Time nel 1981, Lucas aveva concepito un personaggio molto più vicino ai playboy cinematografici dell’epoca. L’intervento di Kaufman fu determinante per eliminare quegli elementi che avrebbero potuto rendere Indiana Jones una mera copia di 007 in versione archeologica.

Il personaggio subì ulteriori metamorfosi cruciali prima di raggiungere la sua forma definitiva. Steven Spielberg, prima ancora di essere confermato come regista, cambiò il cognome del protagonista da Smith a Jones. Jim Steranko, l’artista che creò i concept art originali per “Raiders”, immaginò un Indy muscoloso e ipermaschile, più simile agli eroi action che avrebbero dominato gli anni Ottanta che al professore avventuroso che vediamo sullo schermo. E poi c’è la storia di Tom Selleck, originariamente scelto per il ruolo, che incarnava perfettamente quella visione machista prima di dover abbandonare il progetto per impegni contrattuali con “Magnum P.I.”.

L’arrivo di Harrison Ford trasformò tutto. L’attore portò con sé un’energia completamente diversa, quella dell’eroe comune che sopravvive per miracolo e fortuna più che per abilità sovrumane. Ford dovette affrontare un redesign affrettato del costume dopo l’uscita di Selleck, ma quella fretta si rivelò provvidenziale: contribuì a creare un personaggio meno perfetto, più umano, più vulnerabile.

Cosa sarebbe successo se Philip Kaufman non avesse moderato gli istinti di Lucas? Probabilmente avremmo avuto un personaggio molto meno universale. L’appeal di Indiana Jones risiede proprio nella sua imperfezione, nella sua capacità di improvvisare, nel suo essere costantemente sull’orlo del disastro. Un playboy ricco e donnaiolo avrebbe avuto troppa sicurezza di sé, troppo controllo. Avrebbe perso quel senso di pericolo autentico che rende ogni avventura di Indy così coinvolgente.

Il fascino di Indiana Jones sta nel contrasto tra il professore goffo con gli occhiali e l’avventuriero temerario con la frusta. Questo dualismo funziona perché entrambe le facce del personaggio sembrano autentiche e necessarie l’una all’altra. Un Indy che trascorre le notti nei club con donne al seguito avrebbe rotto quell’equilibrio delicato, trasformando il personaggio in una fantasia maschile unidimensionale piuttosto che nell’eroe complesso e stratificato che è diventato.

Lawrence Kasdan, lo sceneggiatore che diede forma definitiva alla sceneggiatura di “Raiders”, riempì magistralmente gli spazi tra le idee di Spielberg e Lucas per le scene d’azione, costruendo un personaggio coerente e credibile. Ma fu il lavoro di squadra di tutti questi collaboratori, con Kaufman come primo fondamentale correttore di rotta, a creare uno dei personaggi più iconici del ventesimo secolo.

Oggi, guardando Indiana Jones correre dai massi rotolanti, sfuggire ai nazisti e cercare reliquie perdute, è quasi impossibile immaginarlo come il sofisticato frequentatore di nightclub che George Lucas aveva in mente. E forse è proprio questo il miracolo della creazione artistica collettiva: a volte le idee migliori nascono proprio quando qualcuno ha il coraggio di dire “no” alla visione originale, ridefinendola in qualcosa di più grande e duraturo.

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