C’è un filo che lega la vita al cinema. Invisibile, fragile, pronto a spezzarsi. A Venezia diventa immagine e simbolo: un fucile puntato, un uomo disperato, un altro che diventa ostaggio, e un Paese intero con il fiato sospeso. Con Dead Man’s Wire, Gus Van Sant riporta sul grande schermo una vicenda realmente accaduta, trasformandola in un dramma sospeso tra cronaca, allegoria e tragedia moderna.
Le parole del regista e del cast
“La sceneggiatura era già pronta, ma mi affascinava questa vicenda del Midwest, la mia terra d’origine” – racconta Gus Van Sant. – “Una storia bizzarra, ma anche un gesto eroico e disperato allo stesso tempo. Mi attraeva il congegno che Tony aveva creato per non essere ucciso: uno strano modo di rapire qualcuno.”
“Abbiamo passato un mese in una stanza insieme, legati da un filo di metallo — ricorda Dacre Montgomery parlando del lavoro con Alexander Skarsgård —. È stata un’esperienza estrema, ma in lui ho trovato un vero amico. Si è umanizzato di fronte a me, e questo ha umanizzato anche Tony. Non tutti gli uomini bianchi figli di papà sono malvagi, no? Loro due sono un po’ la strana coppia del film, e credo che io e Bill abbiamo sviluppato una relazione simile anche fuori dal set.”
“Il mio personaggio rappresenta la voce del popolo, qualcuno di cui la gente si può fidare, anche Tony” – spiega Colman Domingo, che interpreta un deejay ispirato a figure realmente esistite. – “Per me è stato fondamentale fare ricerche e poi trasformarlo in un corpo vivo dentro di me. Gus mi ha lasciato la libertà di farlo.”
“Quando mi hanno detto che avrei interpretato una reporter negli anni ’70, ho pensato ad Angela Davis” – racconta Myha’la. – “Non ero mai stata una persona vera in una storia vera. Ho cercato di essere fedele, ma anche di creare la mia versione: una sorta di Angela Davis reporter.”

Il film e la vera storia
Febbraio 1977. Tony Kiritsis (Alexander Skarsgård) è un imprenditore schiacciato dai debiti e respinto dalla banca che gli nega tempo per saldare il mutuo. Senza più vie d’uscita, decide di compiere un gesto estremo: prende in ostaggio Richard Hall (Dacre Montgomery), presidente della Meridian Mortgage Company e figlio del fondatore Hall Sr. (Al Pacino).
Il sequestro assume contorni drammatici e simbolici: Kiritsis lega al collo di Hall un filo metallico collegato al grilletto di un fucile Winchester calibro 12. Se qualcuno avesse provato a fermarlo, il colpo avrebbe ucciso l’ostaggio all’istante. Una trappola tanto assurda quanto perfetta, che trasformò per giorni le strade di Indianapolis in un teatro di tensione.
Attorno a loro, un deejay popolare (Colman Domingo), una giovane giornalista (Myha’la) e un poliziotto chiamato alle negoziazioni (Cary Elwes) diventano parte di un dramma che mescola cronaca, politica e disperazione.
Dead Man’s Wire non è soltanto il racconto di un rapimento. È la riflessione sul confine sottile tra follia ed eroismo, sulla vulnerabilità del potere e sulla forza di chi combatte contro un sistema più grande di sé.
A Venezia, tredici minuti di applausi hanno accolto il film come un respiro trattenuto troppo a lungo. E in quel filo invisibile che unisce regista, attori e spettatori, il cinema ha trovato ancora una volta il suo senso più profondo: trasformare il dolore in memoria, e la cronaca in poesia.