Guillermo del Toro torna a Venezia con una delle storie più antiche e potenti della letteratura moderna: Frankenstein. Dopo aver incantato con La forma dell’acqua, il regista messicano porta sul grande schermo una nuova, elegante e opulenta visione del mito di Mary Shelley. È un film che mescola il gotico con l’immaginario fantastico, che abbraccia il romanticismo più struggente e lo contrappone al terrore della creazione, offrendo un viaggio visivo sontuoso, stratificato, a tratti eccessivo, ma capace di scavare in profondità nell’animo umano.
La trama
Victor Frankenstein (Oscar Isaac) è uno scienziato brillante, divorato dall’ossessione di sfidare la morte e riportare in vita la carne inanimata. La sua brama di conoscenza e dominio lo conduce a un esperimento che segnerà la sua rovina: la nascita di una creatura (Jacob Elordi) fatta di pezzi cuciti insieme, fragile e immensa al tempo stesso.
Attraverso tre capitoli, Del Toro ripercorre la storia: dall’infanzia di Victor segnata da un padre severo, ai giorni da medico deriso, fino all’incontro con un benefattore che finanzia il suo sogno proibito. Quando la creatura prende vita, il confine tra mostro e uomo si fa incerto: Victor diventa persecutore, la creatura diventa specchio del dolore, testimone poetico e tormentato di un’umanità che lo rifiuta.
In questa versione, Frankenstein non è più soltanto la tragedia di uno scienziato e della sua creatura: è il racconto di una caduta morale. Victor, con il suo desiderio di dominio, incarna l’arroganza della modernità; la sua solitudine è il prezzo della sua hybris. La creatura, invece, diventa l’antieroe malinconico di Del Toro, fragile come un bambino eppure destinato a crescere nella sfiducia verso l’uomo. Il regista indugia sugli occhi colmi di lacrime di Elordi, trasformandolo da “mostro” in un Vitruviano spezzato, un corpo che porta scritte le cicatrici del mondo.
Del Toro ribadisce, ancora una volta, che il vero mostro non è mai la creatura, ma la paura dell’altro, il pregiudizio, l’incapacità di accogliere.
Visivamente, il film è un trionfo. La fotografia alterna ombre profonde e bagliori improvvisi, creando un mondo che respira gotico e romanticismo. Le scenografie sono sontuose, barocche, decadenti, mentre i costumi raccontano psicologie e ferite: gli stracci della creatura parlano di emarginazione, gli abiti eleganti dei nobili nascondono la follia. Christoph Waltz, Mia Goth e Charles Dance arricchiscono un cast che sa muoversi tra melodramma e horror, anche se è Elordi, con il suo dolore vulnerabile, a conquistare il cuore dello spettatore.
Eppure, nella sua magnificenza, il film rischia di essere indulgente, prigioniero di un’eccessiva fedeltà al testo e di un ritmo che non sempre regge la sua opulenza narrativa. Come un mosaico di parti cucite insieme, Frankenstein di Del Toro vive della sua bellezza formale più che della sua tensione drammatica.
Alla fine resta un’opera imponente, poetica, segnata dalla mano di un autore che sa guardare al mito per riflettere sul presente. Frankenstein non ci mostra solo il dramma di un uomo che sfida la natura, ma ci invita a chiederci chi sia davvero il mostro: la creatura, o l’umanità che la rifiuta? Nel suo linguaggio visivo pieno di simbolismi e ombre, Del Toro ci ricorda che il vero orrore non sta nelle cicatrici del corpo, ma nella cecità del cuore. E che, forse, il mostro non è altro che lo specchio delle nostre paure più profonde.