Il 15 agosto 1975, in alcune arene estive italiane, appariva per la prima volta sul grande schermo un film destinato a diventare leggenda: Amici miei di Mario Monicelli.

Cinquant’anni dopo, quella commedia corrosiva e malinconica continua a vivere nel linguaggio, nella cultura e nella memoria collettiva come un inno all’amicizia, alla libertà e all’irriverenza. Il titolo di questo anniversario, “Come se fosse Ant-anni”, gioca con la celebre “supercazzola” del Conte Mascetti, interpretato da un irresistibile Ugo Tognazzi, e racchiude perfettamente lo spirito del film: una burla continua contro il tempo, la morte, le convenzioni e la serietà della vita adulta.

I protagonisti — Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (poi sostituito da Renzo Montagnani) — sono cinque amici fiorentini sulla cinquantina che si ribellano all’inesorabile avanzare dell’età con scherzi infantili e crudeli, le famose “zingarate”, che diventano metafora di una fuga esistenziale. Il successo fu travolgente: Amici miei incassò più di 7 miliardi di lire, superando persino Lo squalo e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma il suo vero trionfo è stato culturale:

Amici miei si presta a essere interpretato come una grande allegoria della resistenza al tempo attraverso il gioco, dove la “zingarata” assume il rango di rito apotropaico e la “supercazzola” diventa l’emblema linguistico di una contro-politica del senso; in questa chiave i cinque amici non sono semplicemente maschi in crisi di mezz’età che rifiutano la responsabilità, ma figure liminari — trickster moderni — che sospendono l’ordine del quotidiano per inaugurare, di volta in volta, una zona franca in cui la gravità del vivere viene esorcizzata con l’atto gratuito, l’invenzione nonsense e l’oltraggio giocoso, e proprio questa sospensione, ripetuta e ritualizzata, rivela la natura profonda del gruppo come confraternita iniziatica che sostituisce al sacramento dell’età adulta un contro-sacramento del ridicolo, con regole implicite (l’audacia, il segreto, la complicità) e una liturgia (il ritrovo, la progettazione, l’esecuzione, il racconto postumo dell’impresa) che ricalca i tempi di una messa al rovescio; il bar, in tal senso, è l’agorà profana e la sacrestia del comico, luogo di fondazione e archivio orale della memoria del gruppo, mentre la città, Firenze, funziona come palcoscenico e, insieme, come maschera: le sue pietre “alte” e il suo passato illustre forniscono la verticalità contro cui gli eroi della beffa esercitano una forza orizzontale, livellante, che deride tanto l’autorità quanto l’aspirazione alla rispettabilità;

il Conte Mascetti incarna plasticamente questa dialettica, perché la sua nobiltà è al tempo stesso titolo e relitto, segno vuoto e scudo, una maschera che gli consente di trasformare il capitale simbolico dell’aristocrazia in capitale ludico spendibile nelle micro-insurrezioni del quotidiano: quando parla, il suo eloquio s’inabissa in una glossolalia pseudo-dotta che mescola latinismi finti, tecnicismi improvvisati e cadute nel triviale, attivando quella che si potrebbe chiamare una “bomba semantica a grappolo”: una raffica di significanti che disarticola il discorso serio, smonta l’autorità (del vigile, dell’impiegato, del burocrate, del professionista), e restituisce potere al parlante non perché dica il vero, ma perché disorganizza il codice di chi pretende di custodire il vero; in questo senso la supercazzola è più di un tormentone: è un sabotaggio del linguaggio normativo, un gesto politico minuscolo ma incisivo che rovescia per qualche istante la gerarchia del mondo; le zingarate, poi, pur nella loro apparente gratuità, funzionano come dispositivi simbolici che tematizzano quattro grandi paure: la paura dell’irrilevanza sociale (che si vince proclamando un’autorità fittizia, come nella messinscena da “ingegneri” pronti a radere al suolo un paese), la paura della morte (che si addomestica trasformando il rischio in gioco e l’angoscia in risata), la paura della dipendenza affettiva (si tiene a bada con la complicità maschile, che supplisce alle rotture coniugali e ai fallimenti privati), e la paura del tempo (che si tiene fermo nella messa in scena, perché ogni impresa, una volta narrata, diventa memoria condivisa e dunque, paradossalmente, eternità);

il treno, con la celebre “raffica di schiaffi” ai passeggeri sporgenti, è oggetto simbolico potentissimo: macchina del tempo che trascina tutto in avanti, viene “interrotta” dal gesto gratuito che infligge un piccolo trauma comico e fissa l’istante, come se lo schiaffo fosse un timbro d’ingresso alla dimensione del gioco, e tuttavia questa sospensione è ambigua, perché svela l’anima crudele della goliardia: in Amici miei la risata non consola senza prezzo, chiede una tassa di dolore, di vergogna, di cattiveria, ricordando che ogni carnevale porta inciso il rovescio quaresimale; è proprio qui che il film si fa più interessante sul piano etico, perché non assolve i suoi eroi: li mostra irresistibili e insieme discutibili, capaci di una tenerezza interiore che raramente sanno portare alla luce e di una violenza simbolica che li difende dall’angoscia ma colpisce il prossimo, e in questa oscillazione tra carezza e schiaffo si misura l’umanità ferita di un Paese attraversato dalla disillusione;

l’ambientazione toscana non è soltanto un colore regionale, è una postura dello sguardo: il cinismo salato, la battuta rapida, l’intelligenza corrosiva che “mette in ridicolo” non sostituiscono il pensiero, lo producono, perché il riso che incrina la retorica è già un pensare per immagini, un filosofare per scarti; a livello di architettura narrativa, l’episodico diventa forma della memoria e, quindi, antidoto al tempo lineare: ogni zingarata è un monolite che si aggiunge alla costellazione delle imprese, e il montaggio della rimembranza ha la stessa funzione dei brindisi al bar — sigillare il mito, fondare il racconto collettivo, trasformare il contingente in leggenda; sul piano psicoanalitico, si potrebbe dire che il gruppo sostituisce l’Io ideale (padri, capi, figure d’autorità) con un Ideale dell’Io condiviso che ha come postulati l’astuzia, l’irriverenza e la sfida: non potendo più identificarsi con il ruolo, gli amici si identificano con l’eccezione, e in questa scelta trovano una forma di salvezza parziale, perché il gioco li protegge dall’angoscia ma non li emancipa dalla perdita, che riaffiora in filigrana nelle crepe sentimentali e nelle confessioni appena sussurrate;

la politica che abita Amici miei non passa per la militanza, ma per l’intrusione del comico nella vita civile: l’atto gratuito non cambia le istituzioni, ma disattiva momentaneamente l’obbligo a prenderle come natura, ricordando che ogni potere è anche teatro e che la scena può essere occupata da chiunque osi spostare il baricentro del senso; e tuttavia il film non si abbandona alla pura anarchia, perché riconosce un’etica del legame: l’amicizia, qui, è l’unico patto non ipocrita, l’unica istituzione che resista senza farsi retorica, una struttura affettiva che accoglie il fallimento e lo tramuta in arguzia, non per negarlo ma per renderlo condivisibile; persino il successo della battuta più celebre, “come se fosse antani”, illumina una verità ulteriore: che il linguaggio non serve solo a comunicare, serve a compattare, a creare la tribù, a mettere in comune l’inesprimibile, e quando il senso vacilla la comunità si salva pronunciando insieme parole inutili ma necessarie, formule vuote che funzionano come amuleti.

Per questo Amici miei rimane attuale non come reliquia di un’Italia che fu, ma come manuale apocrifo di sopravvivenza emotiva: insegna che la maturità non è l’abolizione del gioco, è il suo governo consapevole; avverte che la risata emancipatrice può farsi arma ottusa se non riconosce il limite; ricorda che il tempo vince sempre ma che, fintanto che si può ridere insieme, il suo dominio resta incrinato; e affida a ogni spettatore il compito di decidere se quel piccolo crinale tra beffa e ferita, tra libertà e irresponsabilità, tra comunità e branco, sia il luogo in cui ancora valga la pena incontrarsi — magari al tavolino di un bar reale o immaginario — per fare, una volta di più, come se fosse antani.

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