Tenetevi forte (o copritevi gli occhi), perché la trama di Jurassic World Rebirth si annusa a chilometri di distanza: un manipolo di avventurieri sbarca su un’isola segreta, vuole sfruttare il DNA dei lucertoloni, qualcuno finisce sgranocchiato – fine del copione.

Siamo al settimo capitolo e l’unica “sorpresa” è il cast: Scarlett Johansson e Mahershala Ali come agenti freelance Zora e Duncan, Jonathan Bailey nel camice del paleontologo Henry Loomis, Rupert Friend nei panni del magnate farmaceutico Martin, convinto che un T-rex sia un bancomat per cure coronariche. Mancando Chris Pratt, avrebbero dovuto inserire nel sottotitolo: «Ci siamo arresi alle idee».

Sono entrato in sala con grandi aspettative quanto un Titanosaurus – e con l’illusione che David Koepp (sceneggiatore del capostipite del 1993) e Gareth Edwards (un buon Godzilla) potessero riportare un briciolo di meraviglia. Illusione spezzata al primo ruggito: Edwards partorisce un monster‑movie senz’anima, in cui né bestie né umani suscitano stupore. Johansson, Ali & Co. si barcamenano in ruoli fotocopia – coriacei, determinati, privi di qualunque scintilla. A fare da (triste) modello c’è “Un milione di anni fa” del 1966: solo che Raquel Welch in bikini di pelliccia almeno destava risatine; qui, zero.
Per ammazzare qualunque residuo di meraviglia, il film apre con un ingorgo a Brooklyn: un sauropode agonizzante intralcia il traffico, imbrattato di graffiti come un cassonetto. Lo stesso animale che trent’anni fa faceva brillare gli occhi a Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum ora è ridotto a mobilio rotto sul marciapiede. E questo dovrebbe intrattenerci? No, è solo la cartina di tornasole di un franchise esausto.

Di lì a due ore sfilano Quetzalcoatlus tuffatori, Mosasaurus schizinosi, Dilophosaurus collared‑killer e un minuscolo “Chicazzèsaurus” tenuto in gabbia – tutti digitali, tutti intercambiabili. L’unico a strappare compassione è quel povero sauropode stradale, simbolo di quanto la serie abbia smesso di credere ai propri mostri.
La noia non basta: serve anche lo sfregio. Morire per uno Snickers gettato sul pavimento del laboratorio (flashback), far amicizia con un Aquilops a suon di liquirizie, etichette di snack inquadrate meglio degli attori… Adesso perfino i dinosauri si fermano davanti a un distributore di bibite per specchiarsi. Siamo alla farsa pubblicitaria.
Johansson e Ali – professionisti di razza – passano indenni solo perché distaccati: lei guarda torva, lui sorride saggio, noi li compatiamo. Alexandre Desplat impasta le note di John Williams in jingle da ascensore: eco lontana di un’epoca in cui Jurassic Park accendeva immaginazione, non sbadigli.


La saga è così sfiancata che si inventa il Distortus rex, parrocchietto con corpo da scarafaggio palestrato. Creature che cambiano scala a ogni inquadratura, CGI che cola come gelato al sole. Eppure persino questi guizzi grotteschi risultano meno offensivi della pigrizia narrativa che li partorisce.


Titolo ingannevole: Rebirth è un funerale di due ore al senso di meraviglia. Il paleontologo Loomis ammette: «Dubito che arriveremo a un milione». Concordo: se Hollywood non partorisce un’idea nuova, faccia un piacere all’umanità – lasci i dinosauri dove stanno, nei musei o nel Mesozoico digitale, e cambi soggetto. Meglio l’estinzione volontaria della minestra riscaldata, o trovate un modo genuinamente diverso di raccontare questi colossi, o fatevi da parte. I dinosauri si sono già estinti una volta: fate che il franchising li segua.

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