È diventata qualcosa di più dolce, più profondo, più disarmante. Un abbraccio al cuore. E sì, preparate i fazzoletti: stavolta non si piange per la tensione, ma per la bellezza struggente di ciò che si prova.

Preparatevi a un nuovo gusto, a un sapore diverso. The Bear non è più la serie che vi sballottava tra ansia e adrenalina, quella che vi lasciava senza fiato e vi faceva gridare al capolavoro dopo ogni episodio. No. Ora è diventata una poesia. Una sinfonia di emozioni che risuonano a un’altra frequenza. E vi chiederà di aprirvi. Di sentire. Di restare.

La quarta stagione si apre con lo zio Jimmy (un Oliver Platt strepitoso), che installa un conto alla rovescia: 1.440 ore per salvare The Bear. Ma il cuore della stagione non pulsa più solo tra i fornelli. La serie si stacca dalla sua premessa originaria e punta dritta all’anima. Addio “Sì, chef!”, addio griglia sfrigolante. Benvenuta umanità.

È come se ogni inquadratura respirasse. I primi episodi si prendono il loro tempo, come un buon sugo lasciato sobbollire. Montaggi lenti, musica che scalda l’anima – i Who, i Talk Talk, i Pretenders – e poi quel brano dei Tangerine Dream, che trasforma una semplice sequenza di cucina in una trance emotiva.

E tra un piatto e l’altro, le confessioni: Tina vuole imparare a fare la pasta perfetta in meno di tre minuti. Richie sogna discorsi che tocchino il cuore del suo staff. Ebraheim si reinventa come visionario del marketing. Non sono solo ambizioni: sono desideri. Tentativi disperati e teneri di essere migliori.

Carmy e Sydney restano il centro pulsante. Lui vuole imparare a chiedere scusa, a spiegarsi, a non ferire. Lei è in bilico tra restare e spiccare il volo. E poi c’è quell’episodio meraviglioso in cui Syd si fa sistemare i capelli dalla cugina, mentre parla con la figlia di lei. Una digressione, certo. Ma necessaria. Perché The Bear ora è questo: intimità, sfumature, piccoli gesti che raccontano un universo intero.

Christopher Storer, il creatore, lo sa. Sta scrivendo una lettera d’amore al concetto di famiglia – quella che ci scegliamo, quella che ci sopporta, quella che ci salva. Richie non è davvero il cugino di Carmy. Jimmy non è davvero uno zio. Ma lo sono. Eccome se lo sono. E ora questo dettaglio diventa la chiave di tutto.

Se prima The Bear faceva battere forte il cuore, ora lo accarezza. Lo stringe. Lo guarisce. La seconda metà della stagione è una lunga, intensa seduta di terapia. Syd non sta solo decidendo se accettare un nuovo lavoro: sta decidendo se diventare, nel cuore, una Berzatto.

E poi, arriva quel doppio episodio. La riunione di famiglia. Il matrimonio dell’ex moglie di Richie. Tutti lì: Sarah Paulson, Bob Odenkirk, John Mulaney, Josh Hartnett, una Brie Larson irresistibile. E sì, anche lei: Donna, la madre, interpretata da una Jamie Lee Curtis da brividi. È lì, con la sua ansia e il suo amore storto. È pronta a far esplodere tutto. Ma questa volta no. Questa volta qualcosa cambia.

Invece di esplodere, la serie si apre. Alla luce. Alla tenerezza. All’amore che resiste anche quando tutto sembra perduto. Le parole più difficili da dire – “mi dispiace” e “grazie” – diventano il centro di tutto. Ogni scena è un dono. Ogni gesto una riconciliazione. Ogni silenzio, un perdono sussurrato.

Anche ciò che nella scorsa stagione sembrava dispersivo ora fiorisce, e ripaga la pazienza degli spettatori più attenti. Il matrimonio è un piccolo classico. Ma il finale – oh, quel finale – è una lama sottile e splendida. Carmy, il nostro cuoco tormentato, forse troverà il coraggio di aprirsi. O forse no. Ma il solo fatto che abbia la possibilità di provarci… è già rivoluzionario.

Questo nuovo Bear è qualcosa di raro. Un gioiello. Una carezza dopo una lunga tempesta.

Capisco che sia una serie di successo e che probabilmente proveranno a continuare. Ma c’è qualcosa, in questo finale, che somiglia troppo alla perfezione. È l’ultimo piatto di una cena straordinaria: uno che ti fa appoggiare la forchetta, chiudere gli occhi e dire, con il cuore colmo, basta così.

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