Recensione della stagione finale – una discesa lenta nell’oscurità dell’animo umano
Nessun vincitore. Nessun riscatto. Solo un’illusione che crolla. La terza stagione di Squid Game non si limita a chiudere un ciclo narrativo: lo seppellisce. Lo smonta, lo disossa, fino a mostrarci cosa resta quando tutto viene ridotto all’essenziale. E ciò che resta è il vuoto.
Un gioco che non ha più bisogno di giocare
Questa stagione non è costruita sull’azione. Non ci sono più sorprese coreografiche, scenografie pop o sfide da reality horror. Squid Game 3 abbandona il suo stesso mito e si guarda allo specchio: cosa accade quando i sopravvissuti non vogliono più vincere? Quando anche la vendetta perde senso?
Il protagonista Gi-hun è il riflesso perfetto di questo naufragio morale. Non è più un giocatore, non è un eroe. È un uomo svuotato, che cerca giustizia in un sistema che non riconosce neppure il concetto.
Le nuove regole sono l’assenza di regole
I giochi questa volta sono più sottili, spesso psicologici, ma proprio per questo più crudeli. Non si tratta di superare prove: si tratta di guardare chi sei disposto a diventare. Chi sei disposto a lasciare indietro. Il tradimento non è più spettacolo, ma routine. L’umanità è un errore da correggere.
Le nuove figure introdotte non sono simboli: sono carne. Persone rotte che non cercano il premio, ma una via d’uscita dal dolore. Spoiler: non la troveranno.
Un finale senza redenzione
Hwang Dong-hyuk non offre catarsi. Nessuna rivoluzione, nessun trionfo morale. Solo la consapevolezza che l’intero sistema – dentro e fuori il gioco – è progettato per sopravvivere a tutto, anche alla sua stessa fine.
Il finale non chiude: spegne. E lo fa lentamente. Come una stanza che si svuota di ossigeno, un secondo alla volta. Non resta nulla da dire, solo il silenzio.