Non capita spesso di ascoltare un autore e pensare: “Cavolo, ha proprio ragione”. Eppure è quello che mi è successo quando Tony Gilroy, showrunner di Andor, ha detto — senza troppi giri di parole — che una serie così non la rivedremo mai più.
All’inizio sembra quasi una sparata da ego gonfiato. Ma poi capisci. Sta parlando di quello che c’è dietro, del contesto, di quella combinazione irripetibile di libertà creativa, tempi perfetti e fiducia. Sta parlando di un allineamento di pianeti. Un miracolo, appunto.
“Nessuno potrà più fare qualcosa del genere”, ha detto. E a giudicare da com’è andata — e da com’è l’industria adesso — viene voglia di credergli.
Perché Andor è qualcosa di raro. Non è solo la miglior serie TV ambientata nell’universo Star Wars. È qualcosa di più profondo, più vero. Un’opera adulta, lucida, che non ha paura di alzare il livello, di sporcare le mani, di far pensare. Il budget? Enorme: 645 milioni di dollari. Più di The Last Jedi. Ma i soldi non bastano a spiegare perché Andor sia così potente.
La verità è che Andor è stato scritto da persone che avevano una cosa urgente da dire. E hanno scelto Star Wars per dirla.
Tom Bissell, che ha lavorato alla seconda stagione, ha raccontato una frase bellissima di Gilroy. Una di quelle che ti restano in testa:
“Quando lavori su un grande franchise, la tentazione è tirare fuori tutti i giocattoli dalla scatola e iniziare a giocarci. Ma devi resistere. Devi fare in modo che, alla fine, ce ne siano di più di quanti ce n’erano all’inizio.”
Capito? Non si tratta di nostalgia, ma di lasciare qualcosa di nuovo. Di costruire, non solo smanettare con quello che già c’è.
E se pensiamo a tutto ciò che Andor ha aggiunto all’universo di Star Wars — nuovi pianeti, nuove dinamiche, nuovi toni — questa frase diventa un manifesto. Un atto d’amore adulto verso una saga che spesso tratta il suo pubblico come bambini da intrattenere, non come persone da stimolare.
E a questo punto scappa quasi da ridere, perché anche se nessuno lo dice apertamente, è chiaro che qui si sta facendo un confronto diretto con il “giocattolismo” di Dave Filoni e Jon Favreau. Quelli che hanno costruito The Mandalorian e compagnia bella proprio aprendo la scatola e tirando fuori Boba Fett, Luke, Ahsoka, Grogu e tutto il parco vintage.
Solo che a forza di usare quei giocattoli, si consumano. E infatti, nella terza stagione di The Mandalorian, si è sentita tutta la stanchezza.
Andor invece no. Non è nato per farci felici. Non è nato per vendere gadget. Nessuno lo chiedeva, nessuno lo voleva. E proprio per questo, è stata un’opera libera. Vera. Un messaggio — come Cassian stesso — dentro un universo che sembrava incapace di sorprendere ancora.
E sai qual è la parte assurda? Che Andor ha rischiato di non nascere.
La Disney ce l’aveva in mano fin dall’inizio. Gilroy aveva presentato la serie. Ma l’hanno bocciata. “Non è in linea col brand”. Hanno provato un’altra strada. È andata male. E allora, solo allora, sono tornati da Gilroy.
Lui è tornato. E ha fatto qualcosa di incredibile. Non perché gliel’avessero chiesto. Ma perché ci credeva.
È per questo che Andor è così diverso. Perché non è nato da un algoritmo. È nato da una visione. E non ha cercato di incastrarsi nello schema, ma di piegarlo. Di romperlo, a volte.
Tony Gilroy spera che Andor possa essere il primo passo verso qualcosa di nuovo. Che possa cambiare le regole del gioco. “La speranza è che si possa fare qualsiasi cosa”, ha detto.
Ed è quello che George Lucas voleva. Lo diceva già vent’anni fa. La sua serie live-action di Star Wars, rimasta incompiuta, doveva essere oscura, adulta, violenta. Il produttore Rick McCallum la descriveva così: “Sexy, complicata, stimolante. Avrebbe fatto esplodere l’intero universo di Star Wars.”
Insomma: suonava come Andor.
E guarda caso, nemmeno quella la Disney l’ha voluta. Proprio come non voleva Andor.
Lucas, frustrato, si è allontanato. E quando vide Il risveglio della Forza, disse la frase più tagliente di tutte: “Non c’è niente di nuovo.”
Ecco cosa fa Andor. Fa sembrare George Lucas un veggente.
Ora, la domanda è: Andor sarà un’eccezione o un inizio?
Perché la festa delle serie TV Star Wars sta rallentando. Si torna ai film. Arrivano The Mandalorian & Grogu, Ahsoka 2, lo Starfighter di Shawn Levy. Tutto bello, eh, ma ancora sicuro. Ancora “comfort food galattico”.
Poi, però, spuntano due lampi. Due promesse. C’è Dawn of the Jedi di James Mangold, scritto insieme a Beau Willimon (proprio uno degli autori di Andor). E poi c’è Maul: Shadow Lord, la prima serie su un villain puro. Due scelte che odorano di coraggio. Di fame. Di rottura.
La verità? Non so se la Lucasfilm riuscirà a replicare la magia di Andor. Ma so che deve provarci. Perché ora che l’asticella si è alzata, tornare indietro sarebbe un tradimento.
Tony Gilroy ha mostrato che Star Wars può essere altro. Che può crescere con noi. Che può parlare al cuore, ma anche alla testa. Che può ancora farci tremare.
Ora tocca a loro dimostrarci che non è stato solo un miracolo. Che questa galassia lontana, lontana… può ancora sorprenderci.