C’è un momento, nella sera di Roma, in cui il cielo sembra trattenere il respiro. È l’istante in cui arriva Celeste Dalla Porta, e il suo nome — così evocativo — si fa presagio di grazia. Dopo aver conquistato il cuore del cinema nel ruolo di Parthenope, musa moderna scolpita da Sorrentino, Celeste approda alla 70ª edizione dei David di Donatello con il candore di chi è giovane e già immensa. Candidata come Miglior Attrice Protagonista, porta sul tappeto rosso non solo il talento acerbo e già maturo, ma un’aura che pare venire da un’altra epoca.

Per la serata che potrebbe segnarne l’ascesa definitiva, sceglie il nero profondo di un abito Alessandra Rich: una silhouette che danza tra mistero e luce, con uno spacco che accenna, non mostra, e una scollatura che sa di mare e coraggio. Le rouches, come onde leggere, addolciscono l’insieme con grazia volutamente dissonante.

A incorniciare il volto da ninfa, due collier firmati Garatti: uno in diamanti bianchi, l’altro ornato da un raro diamante verde Fancy, come un frammento di natura incastonato nel tempo. L’anello, in pendant, sussurra la stessa poesia. E poi quel filo di luce — lungo, sottile, seducente — che percorre il décolleté come un pensiero non detto.

Celeste non si limita a sfilare: attraversa la scena come fanno le grandi attrici nei film senza tempo. E mentre il pubblico attende il verdetto, lei è già, silenziosamente, una promessa mantenuta. Una donna che ha fatto della bellezza una forma d’arte e dell’intensità la sua lingua madre.

Di Martina Bernardo

Vengo da un galassia lontana lontana... Appassionata di cinema e serie tv anche nella vita precedente e devota ai Musical